“ Si scrive ciò che si sente e si vive. Si scrive con tutto il proprio essere. E’ la sola maniera di essere onesti, di essere se stessi”.

Ivy Compton-Burnett

mercoledì 25 novembre 2015

25 NOVEMBRE

GIORNATA CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE

SCARPE ROSSE
"Queste donne non devono essere dimenticate, perchè come loro ce ne sono centinaia di altre, che solo uscendo dal buio e dall'anonimato, possono ritrovare un po' di giustizia. E di serenità."
da PELLE DI DONNA (Bonfirraro Editore)


lunedì 22 giugno 2015

OLTRE IL FEMMINICIDIO

dal blog:   http://ulisse-compagnidistrada.blogspot.it/2015/06/quando-il-femminicidio-uccide-anche-la.html

Nomi e luoghi sono stati cambiati per rispetto delle vittime e dei parenti.


OLTRE IL FEMMINICIDIO:
MIA FIGLIA E IL MIO NIPOTINO UCCISI INSIEME
Di Alina Rizzi

  
Sarebbe stato il mio primo nipotino, il figlio della mia Barbara. Quando l’ho avuto tra le braccia, paffuto e dolce come un angelo,  ho subito deciso che lo avrei vestito con gli abiti e la cuffietta bianca che io e sua mamma da mesi avevamo comperato per lui.
Era bellissimo, pareva dormire, con gli occhi chiusi e la boccuccia imbronciata. Per questo ho deciso di fotografarlo e di mandare il suo ritratto a chi conosceva e amava Barbara..
Doveva essere ben chiaro che quel porco di suo padre non aveva ucciso solo mia figlia, ma anche il bambino che portava in grembo.

ADESSO STARANNO SEMPRE INSIEME
A me non importa se per la legge dello stato italiano mio nipote, non essendo mai nato, perché morto nella pancia di sua madre al nono mese di gravidanza, debba essere definito “feto”. E’ un cavillo legale indegno. Basta guardarlo questo bambino, che il medico ha prelevato dalla pancia della mia Barbara durante l’autopsia, per rendersi conto che di lì a pochi giorni sarebbe nato come previsto.  Invece lui me li hanno portati via entrambi quella notte maledetta e nel modo più cruento e immondo.
Gennaro non voleva che mia figlia tenesse quel bambino, di cui era il padre, perché era già sposato. Aveva cercato di convincere Barbara nei primi mesi, ma non ci era riuscito. Mia figlia, nonostante avesse solo 20 anni, era caparbia e determinata: voleva il suo bambino e con l’aiuto mio e di mio marito ce l’avrebbe fatta.
Barbara infatti stava bene, era serena, non  le facevo mancare nulla.
Andavamo insieme alle visite ecografiche di controllo, e poi a comprare i mobili per arredare la sua cameretta, la carrozzina, l’ovetto da mettere in auto. Avevamo preso tanti vestitini, che Barbara aveva già lavato e stirato, e messi nel cassetto ben divisi per taglie: sarebbero bastati per almeno due anni.
Ma Barbara e suo figlio sono morti prima di potersi godere quel nido d’amore che avevamo preparato insieme. Quell’uomo, che non chiamo bestia per non offendere gli animali, me l’ha massacrata.
Le ha dato un appuntamento dopo che non si faceva più sentire da mesi. Voleva parlarle, aveva detto al telefono, ma non in casa mia. E Barbara gli ha creduto. Sperava sempre di poter sistemare per il meglio ogni cosa.
-         Esco solo un’oretta, mamma, stai tranquilla, – mi aveva detto quella sera.
Ed era andata serenamente.
Le aveva dato appuntamento al campo sportivo e questo non mi piaceva proprio, ma non potevo oppormi. Barbara è uscita di casa con un giubbettino strizzato sul suo pancione di nove mesi e non ha più fatto ritorno.
Il padre del suo bambino la stava aspettando e l’ha portata a prendere un gelato in centro.
Avranno chiacchierato, immagino io, lei avrà sperato in un suo ripensamento, forse. Certo non poteva immaginare che presto avrebbe fermato l’auto dietro un benzinaio, per litigare in un luogo appartato. Sono scesi dall’auto. Mi hanno detto che Barbara è scappata nei campi, ma lui l’ha raggiunta subito.

NON HA POTUTO DIFENDERSI
L’ha trascinata nel terreno dove erano state scavate delle buche per piantare le magnolie, e ce l’ha spinta dentro. L’ha picchiata. Lei era distesa supina, hanno spiegato gli investigatori. Quindi l’uomo ha preso a calci il suo pancione e quando Barbara si è girata per proteggersi le ha spinto la testa nel fango per soffocarla. Ma non gli bastava. Le è saltato sulla schiena con i suoi 90 kg di peso, per spezzarla nel corpo come nell’anima. Barbara è rimasta immobile, mentre lui le buttava sopra foglie e rami per nasconderla. Con la schiena rotta non ha più potuto alzarsi o muoversi. Ha dovuto ingoiare l’acqua melmosa e il fango, mentre sicuramente ha sentito la morte arrivare. Non ha potuto difendersi né proteggere il suo bimbo. Quale dolore più grande può esserci per una mamma?
Ho disteso il mio nipotino tra le braccia della mia Barbara, nella bara bianca che li ha accolti. Ora staranno per sempre insieme. E non voglio più sentire quelle accuse assurde: hanno detto che io ho voluto spettacolarizzare la morte del piccolo vestendolo come un neonato, ma non è vero! Lui era un bambino a tutti gli effetti e sarebbe nato sano e bellissimo se non fosse stato massacrato di colpi da suo padre. Quel porco meritava di essere condannato per duplice omicidio ma mio nipote non é stato considerato un essere umano, perché non ancora nato. E allora gli hanno dato 30 anni, che non sono niente in cambio delle nostre vite distrutte.

PICCOLI FANS CRESCONO...


giugno 2015

DONNE CORAGGIOSE


AVREI DOVUTO ABORTIRE, MA ...

Sul blog COMPAGNI DI STRADA E DI VIAGGIO la storia di MICHELA NAPOLITANO che ci racconta cosa significa veramente abortire in italia. 
Un'altra delle mie "storie di donne". Inedita!
http://goo.gl/AZOjwB.


MICHELA NAPOLITANO


AVREI DOVUTO ABORTIRE,
MA NON ME LO SAREI MAI PERDONATA
Di Alina Rizzi

 La notte che scoprii di essere incinta del mio quarto figlio, tutti i sogni e i progetti che avevo mi caddero addosso. Erano le due del mattino quando lanciai un grido che svegliò non solo i miei bambini, ma anche qualche villeggiante attorno alla nostra casa. Mi sentii precipitare in un abisso senza uscita. Non ce l’avrei mai fatta a portare avanti un’altra gravidanza, dopo aver avuto Edoardo, il maschietto, e poi le gemelline Silvia e Alessandra, in soli quattro anni.
Mi sentii sopraffatta al pensiero dei problemi economici che avrebbe comportato quella nascita, ma soprattutto sapevo che sarebbe stato molto rischioso per la mia salute. Ricordavo bene quanto era stato faticoso portare avanti le gravidanze precedenti, il vomito continuo, i malesseri, il deperimento fisico. Per mio marito fu subito evidente che non potevo avere un altro bambino. Si prospettò l’idea di un’interruzione di gravidanza, che mi lasciò incredula e abbattuta.
Il giorno dopo, il mio ginecologo, volle farmi una prima ecografia. Lo vidi scuotere la testa, davanti alla probabilità di due embrioni.
“ Hai tre bambini piccoli, sei reduce da gravidanze difficili e parti cesarei, come credi di potercela fare?” mi domandò in tono serio.
“ Il tuo corpo è debole, non può reggere il trauma fisico che si prospetta.”
Mio marito era d’accordo. La decisione più saggia sembrava già presa. Eppure non riuscivo a darmi pace.

UNA SCELTA DEVASTANTE
Avvolta in un abito di cotone scuro sgualcito, sorretta dal braccio confortevole di mio marito, varcai l’atrio dell’ospedale, dove mi attendeva una seconda diagnosi clinica embrionale.
Dopo una breve attesa, fu il mio turno di salire sul lettino appena lasciato libero da una mamma più fortunata di me, che si allontanava raggiante di gioia e autostima.
Una grande tristezza mi invadeva mentre scoprivo l’addome per l’ecografia. Subito avvertii il cuore del piccolo che portavo in grembo e ricordai quando quell’evento aveva rappresentato uno dei momenti più belli della mia vita. Strinsi gli occhi che bruciavano di lacrime.
Il medico sorrideva, sembrava ignorare i motivi reali della mia visita.
“ Signora, è davvero precoce questo bambino, guardi come la sta salutando”, disse, mostrandomi la manina sinistra che si muoveva come un’onda, forse per salutarmi davvero.
Mi sentii scoppiare il cuore e dentro di me sussurrai: “Quanto sei bello, amore mio”.
Seppi che non si trattava di una gravidanza gemellare e per un attimo immaginai di portarla avanti: per quanto rischioso era ciò che desideravo davvero.
Nessuno però mi sostenne in questo mio irrazionale desiderio. Mia madre e i miei fratelli, preoccupatissimi, volevano convincermi che non dovevo dubitare, che era la scelta migliore per tutti. Al consultorio incontrai molte altre donne che stavano prendendo quella stessa strada, eppure, io mi sentivo quasi estranea tra di loro. Perché?
Una mattina si fece avanti una donna dall’aspetto spartano, proponendoci dei colloqui individuali. Persi la pazienza e scattai in piedi colma di rancore.
“ No, voglio parlare davanti a tutte loro,-“ dissi con voce dura.
“ Non ho nulla da nascondere, niente di cui vergognarmi!”
L’operatrice annuì e iniziò a parlarci delle emozioni che provavamo, del senso di colpa, del dilemma morale, ma anche dell’importanza dell’evento che stava accadendo nel nostro corpo.
A quel punto sbottai come una furia. Detestavo la sua verità assoluta. Chi credeva di essere? Una santa? Una missionaria? Aveva idea del dolore che stavo provando?
Urlai davanti al suo sguardo incredulo e poi la tensione mi fece scoppiare in lacrime. Altre donne piansero insieme a me. Allora l’operatrice si avvicinò e ci legò tutte in un unico abbraccio. Per la prima volta dall’inizio di quella vicenda provai una sensazione di autentico conforto e condivisione, e mi sentii un po’ più forte. Purtroppo mi bastò tornare a casa, da mio marito e i bambini, per rendermi conto che non potevo farmi trascinare dalle emozioni, dovevo pensare al bene di tutta la famiglia e fare il mio dovere.

HA DECISO IL CUORE
Era il giorno dell’intervento. Mi trovavo in ospedale, dopo venti giorni di sofferenza fisica e morale. La nausea era già fortissima e a volte vomitavo sangue. Non mangiavo più. Non riuscivo a dormire. Mi ero rinchiusa in duro bozzolo di dolore. Ero intenzionata a fare la cosa più giusta, ma mi sentivo come una condannata a morte. Sapevo che non avrei mai superato l’aborto.
Prima di entrare in sala operatoria mio marito si chinò sulla barella per baciarmi e inaspettatamente sussurrò: “Michela, ricorda che fino all’ultimo momento puoi decidere quello che vuoi”.
Era un uomo meraviglioso, prostrato dalla sofferenza, ma ancora capace di sostenermi fino alla fine.
Mi portarono via e chiusi gli occhi. Singhiozzavo senza neppure accorgermene, mentre gli infermieri trafficavano attorno a me.
D’un tratto sentii una mano che mi accarezzava il braccio sinistro e aprii gli occhi. Era il medico dagli occhi chiari che avevo visto poco prima.
“ Perché lei piange tanto? “ mi chiese dolcemente.
Le parole mi strariparono dalle labbra come un torrente in piena.
“ Piango perché credo che sto facendo la cosa più brutta della mia vita,” gli dissi.
“Perché signora, non è convinta?” insistette.
“Oh no! Io non sono mai stata convinta di lasciare qui una parte di me. Ma temo sia troppo tardi!” esclamai.
Calò un profondo silenzio e non sapevo proprio cosa aspettarmi. Il medico mi strinse più forte il braccio poi si voltò verso gli infermieri dicendo:
“ Ragazzi, fermate tutto, la signora va via.”
Grandi lacrime di sollievo mi rigarono le guance, mentre intorno avvertivo sospiri, complimenti sussurrati, parole di conforto.
Il medico afferrò la barella e mi portò fuori di persona, senza nascondere l’orgoglio che provava.
Le altre donne in attesa dell’intervento mi guardarono incredule e commosse. Mio marito mi abbracciò tremando, non aveva bisogno di spiegazioni.
“Va bene così, tesoro,” sussurrò.
Non posso descrivere la gioia con cui tornai a casa, impaziente di dare la bella notizia a tutti.
E non importa se ho avuto la gravidanza difficile che mi avevano prospettato, un altro cesareo e un successivo intervento. Mia figlia Elvira è nata in perfetta salute, splendida, e con i suoi tre fratelli è il sole della mia vita.



INTERVISTA


INTERVISTA PER IL BLOG COGITO ERGO...SCRIVO 
 http://www.bonfirraroeditore.it/blog/item/149-8-giugno-l-uscita-dell-ultimo-libro-della-giornalista-alina-rizzi-per-la-serie-cogito-ergo-scrivo-13.html#.VXBLbxQ7cNV
  
PELLE DI DONNA è un libro di storie vere e documentate, da dove vengono?
Dalla cronaca soprattutto. Sono storie che ho raccolto negli ultimi anni per le riviste a cui collaboro. Storie di donne vittime di violenza e soprusi, da parte dei loro uomini soprattutto.
Crede sia utile raccontare i fatti per combattere la violenza di genere?
Sì, assolutamente. Raccontare serve a condividere, a tenere alta l’attenzione su questo enorme problema. Serve anche alle vittime per non sentirsi sole e isolate, per trovare la strada per superare l’esperienza e il dolore. Le donne che ho intervistato ce l’hanno fatta: sono state forti e coraggiose, si sono ribellate, hanno salvato la propria dignità oltre che la propria vita.
Nel libro racconta anche storie di donne straniere: per esempio della pratica dell’infibulazione e del racket della prostituzione nigeriana.
E’ vero, perché il problema dei soprusi sulle donne è trasversale, coinvolge il nord e il sud del mondo, religioni e culture diverse. Nessuno deve sentirsi estraneo al problema. Viviamo in una società patriarcale, che solo in anni recenti, con fatica e grazie al lavoro di tante donne, è stata messa in discussione. Non possiamo assolutamente tornare indietro. E per farlo occorre fare fronte comune.
Il racconto intitolato “Lapidata” è la storia di un femminicidio. Non teme che il libro sia troppo “duro”?
I miei racconti non possono essere certo più duri della realtà. E alla realtà, in questi casi, non ci si deve sottrarre. Non ho scritto un libro rilassante, è evidente, ma non ho neppure cercato di enfatizzare queste storie. Mi sono attenuta ai fatti, cercando di dare voce anche ai pensieri e alle emozioni delle protagoniste, e credo di esserci riuscita, perché rileggendo i racconti prima che venissero pubblicati,  si sono completamente ritrovate. E’ stato uno scambio profondo e intenso, del quale sono molto grata ad ognuna di loro: hanno voluto condividere con me momenti fondamentali delle loro vite e, con molta generosità, hanno offerto la propria esperienza ad ogni lettrice.

PELLE DI DONNA a Como

Prima presentazione:






“Pelle di Donna”, l’ultimo libro di Alina Rizzi  presentato a Como dall’Associazione “Tessere la Rete”.
La “Drogheria” di via Diaz a Como piena di donne, tra cui la vice-sindaco della città Silvia Magni, e qualche uomo per la presentazione dell’ultima opera letteraria di Alina Rizzi “Pelle di Donna” – Bonfirraro Editore, euro 13,90.
La scrittrice, nata a Erba, valorizza e concede voce all’universo femminile: Suoi romanzi: “Amare Leon”  che ha ispirato Tinto Brass per il film “Monamour”, “Donne di cuore”, “ Scrivimi d’amore”. Sue raccolte di racconti: “”Bambino mio”, “Quello che le madri non dicono”. Raccolte poetiche e antologie, l’ultima americana “La dolce vita” – Running press.
In “Pelle di Donna” Alina Rizzi raccoglie storie di ordinaria sopravvivenza femminile, donne vittime di femminicidio e violenze d’ogni tipo.
La giornalista Ida Paola Sozzani – che fu nella redazione di “Geniodonna”, mensile transfrontaliero Italia-Svizzera  - ha ricordato che nel 2015, fino al 14 giugno, sono stati conteggiati 73 ginecidi, uno ogni 54 ore, anche se in Europa non siamo più all’anno zero sulla questione della violenza alle donne e disponiamo di strumenti normativi e di tutela.
Le storie narrate da Alina Rizzi sono autentiche e documentate, si tratta delle dirette testimonianze delle protagoniste, donne tra le tante che hanno vissuto coercizioni, esclusioni, violenze fisiche e psicologiche, fenomeni perpetrati da uomini, spesso mariti e fidanzati,  compagni di vita.
Un invito a non dimenticare queste vittime, coloro che sono sopravvissute e stanno uscendo dal buio per trovare, con la giustizia loro dovuta, un po’ di serenità.
Guido Capizzi 

venerdì 24 aprile 2015

MEMORIE DI CARTA


" Mio marito é disperato e a volte urla che non ne può più. Ci sono dei giorni che mi dimentico persino di preparare da mangiare perchè sono lì che scrivo e scrivo... Lui mi dice: "Ma si può sapere che cos'hai di così importante da scrivere?" Ho cercato di spiegargli che questo é il mio modo per tenere insieme la vita, per non perdere i fatti che mi succedono, per non dimenticare, ma lui fa fatica a capire. Che cos'é un essere umano senza la sua memoria? Un involucro di carne e ossa e sangue, un'eterna immanenza, un continuo presente che non ha radici."

"E perchè vuoi ricordarti di quei giorni terribili?" mi chiede mia figlia minore. Come faccio a spiegarle che questo é l'unico modo per sapere che sono esistita anch'io? Che ho superato giorni terribili, come dice lei, e che sono ancora qui. E che non li voglio più vivere giorni così, né per me nè per le mie figlie e i miei nipoti e che solo ricordando potrò insegnare loro qualcosa."


"Più e elencavo tutte le cose che avevo (una bella famiglia, un bravo marito, dei bravi figli, una bella casa...), più mi sentivo un totale fallimento. E stare a letto mi pareva l'unica cosa possibile. Ma adesso non sto più così: sono allegra, piena di voglia di fare. Solo non posso pensare di vivere senza il mio diario."

Dal racconto "MEMORIE DI CARTA" di Barbara Garlaschelli, nella bellissima antologia NON E' UN PAESE PER DONNE a cura di Carmen Pellegrino e Cristina Zagaria

giovedì 23 aprile 2015

IN LIBRERIA A MAGGIO!


Alina Rizzi
PELLE DI DONNA
(Bonfirraro Editore)

Donne vittime dei loro mariti, amanti, famigliari.
Qualche volta di uomini incontrati per caso e accolti con fiducia, sbagliando.
Donne aggredite da mostri grandi e oscuri: la mafia,
gli errori giudiziari, i riti arcaici di una tribù africana.
Donne tradite dalla loro comunità, dal parroco di
famiglia, da finti benefattori in terra straniera.
Le storie raccolte in questo libro sono autentiche
e documentate, sono le dirette testimonianze delle
loro protagoniste: donne tra tante, insospettabili,
che hanno attraversato il dolore della coercizione,
dell’esclusione, della violenza fisica e psicologica,
quasi sempre perpetrata da uomini. Io mi sono semplicemente
messa in ascolto, con empatia e profondo
rispetto, cercando di restituire a questi vissuti la dignità
che meritano, portandoli alla luce del foglio bianco.
Non ci sono finzioni o abbellimenti in questi racconti:
ci sono nomi, date, luoghi, avvenimenti spesso
riferiti dalla cronaca e poi subito scordati. Ma queste
donne non devono essere dimenticate, perché come
loro ce ne sono centinaia di altre, che solo uscendo
dal buio e dall’anonimato, possono forse ritrovare
un po’ di giustizia. E di serenità.  

Alina Rizzi