NOTA AL TESTO
di Giampiero Neri
Le poesie che Alina
Rizzi raccoglie sotto il titolo di “Artimie”, sono state
scritte fra il 2010 e il 2015 e si presentano in forma compatta, di notevole
forza espressiva. Sono in gran parte riflessioni sulla “disillusione” del
vivere, ma non si pensi per questo a una poesia decadente, avvitata su se
stessa, che anzi l’opera è vibrante, il testo poetico è improntato a vigore.
Si percepisce una volontà non domata dagli avvenimenti e,
per quanto provata, non ancora arresa.
La raccolta è divisa in due sezioni, la prima con il titolo
omonimo e la seconda con la citazione di un verso di Sylvia Plath, “La
tranquillità è una menzogna”.
Si potrebbe dire che Alina Rizzi, con questa opera, abbia
raggiunto la sua piena maturità espressiva. Un testo poetico di notevole
origi
VERSO UN BATTITO
postfazione di Mariella De Santis
Alina Rizzi è scrittrice di
molte scritture che nascono dalle sue passioni, dai suoi coinvolgimenti con la
vita intera che non esclude l’esperienza del corpo, della psiche, dell’emozione
e dell’ingaggio con la consapevolezza di una presenza al mondo determinata da
molte variabili ma la cui manifestazione antropologica viene comodamente
assunta come realtà data, oltre la storia. Mi riferisco qui in particolare alla
sua attenzione verso le esistenze di donne che cercano di superare i limiti
imposti da convenzioni sociali e norme non scritte che ne decretano una soggettività limitata, mortificata. Ne ha
scritto sia in termini di informazione con acuti articoli e interviste su
riviste che con un libro di racconti in cui ha trattato i nebulosi
attraversamenti emotivi delle infanticide e poi ha ideato la “coperta delle donne”, originale
iniziativa con cui ha messo in contatto tanta buona energia di scrittrici,
artiste, intellettuali, contro la violenza di genere e ha portato nel mondo un
manufatto collettivo –la coperta, appunto- che è divenuto oggetto d’arte e di
impegno. Alina Rizzi è anche una delle poche scrittrici italiane che senza
reticenze ha scritto del piacere sessuale delle donne, in anticipo su quella
che poi è divenuta moda editoriale. Eppure, ho l’idea che nella poesia Alina
Rizzi si avvicini alla sua necessità più intima e la lettura dei testi
contenuti in Aritmie ne è stata in
qualche modo la conferma. In questo libro si avverte quell’eccedenza di verità
che caratterizza quello speciale e specifico impatto che avvertiamo se stiamo leggendo poesia. E questo accade prescindendo
dalle poetiche, dalle forme, dagli stili personali, dai canoni. E quindi anche
dalle legittime preferenze personali. È il senso della verità che oltrepassa
l’esperienza di chi scrive, quella che io chiamo eccedenza di verità ed accade
quando la parola incarna se stessa sino
al punto in cui diviene la massima possibilità di sé in relazione ad una certa
scelta di organizzazione del testo. E questo è quello che io ho trovato in Aritmie. In questa opera l’Autrice si
pone in ascolto delle disarmonie della vita, delle mancanze inspiegabili come
delle scelte mancate e di quelle operate
“Scegliere di non scegliere/un
compromesso una vocazione/ se la mancanza ci appartiene/ e accorcia il respiro”
( Bianco e nero) , del senso di nostalgia che agguanta riempiendo di vuoto la
densità di giorni operosi. Ascolta tutto questo, gli dà parola e cerca
nell’intermittenza aritmica del segnale un battito che indichi la strada per
una buona vita. Una vita che sia ricomposizione di opposte pulsioni, di
contraddittori bisogni, di annegamenti nella luce potente di un luogo: “Austere e caotiche/ confuse in un dedalo
abbagliante/ città bianche che inseguo/ nella luce sfatta del giorno. […]” (
Mogador ). I luoghi fisici siano o no
individuati con un nome, tornano spesso nelle poesie che compongono Aritmie.
Sono pietre d’inciampo a segnare eventi, intuizioni, svolte di passo che vanno
trattenute perché la memoria che pare costituirsi per l’Autrice quale funzione
vicina al magico, trascendente il possesso personale, non tradisca più di
quanto il corpo biologico individuale
possa fare : “Era una lontananza
funesta /che mi indicavi sussurrando nero! Nero!/Chinavo il capo negando il
male/congelavo l’istante.[…]” (Nel sogno). Alina Rizzi va a realizzare con
le sue poesie un luogo di sosta e riparo nel quale fermarsi per riprendere
fiato. È la sua una poesia di antinomie
che vuole coesistere con l’evidente contraddizione dell’esserci, in una
limitatezza che la condizione di genere rende più tangibile: “[…] Oppure/liberarsi di grate e catene/vivere
dentro il mondo/nell’oblio di giorni uguali e persi/di una vita spesa/mai
lesinata.” (Harem).
Nei testi sono evidenti i segni
delle frequentazioni e forse preferenze letterarie di Alina Rizzi, di certo gli
zolfanelli che nella notte si spengono ( Zolfanelli, ivi) ci ricordano i tre
fiammiferi di Prevert mentre Silvia Plath
è citata in Gli orologi gridano testo
che richiama fortemente la lezione della poesia confessional di cui la
Plath fu esponente ma la rivive con senso della lingua e del
tempo presenti. A Marguerite Duras,
figura di donna non convenzionale e scrittrice audace è dedicata Incurabili. Azzardo a dire che questi sono i testi
che contengono, nuclearmente, la poetica di fondo dell’Autrice che in questo
libro si misura con la perdita e la riparazione tentata solo attraverso la
pratica di una vita che assume la forma di una consueta esistenza ma alimentata
interiormente, in maniera quasi claustrale, da un fervore incessante. Aritmie è un libro che si misura con la
mimesi, con la strategia della sopravvivenza
in forza degli affetti e della responsabilità, così
in un bel testo dedicato al figlio Ariel:”
[…] ora sei/la fine che non ha trovato
rifugio/il mio maldestro ritorno/al primo giorno/all’ultimo che verrà”(
L’ultimo giorno). Alina Rizzi non utilizza forme stridenti per eccessi,
forzature della lingua, della sintassi ma sottrae appesantimenti, ridondanze,
similitudini per realizzare equilibri di vetro, trasparenti, in cui il tratto
di delicatezza non è mai reticenza quanto ritegno che fa dell’Io poetico un
ospite pronto ad accogliere e non a dominare la scena. In ascolto attento di un
battito nitido tra esistenze aritmiche.
Nel freddo di fine aprile 2016, Mariella
De Santis
Aritmie
(New Press edizioni, 2016)
nota critica di Marco Ercolani
«Ora so
che non avremo tempo
di imparare a viverci interi.
Già ci stiamo ammalando
la nostalgia ci rende muti
incapaci di afferrare
il più fragile stato nascente»
Alina Rizzi, con Aritmie, da’ forma a un canzoniere
d’amore che, come scrive Mariella De
Santis, “si pone in ascolto delle disarmonie inspiegabili come delle scelte
mancate e di quelle operate”. La scrittura, semplice e nuda ma non ingenua,
spesso icastica, molto lontana dalle sue precedenti raccolte, si spoglia di
ogni orpello, di ogni lusso verbale, di ogni “retorica” del discorso amoroso,
per scavare direttamente nell’urgenza della ferita, non tanto per lamentarsi di
un dolore ma al contrario per dare viva forma alla propria vibrante
disperazione, percepita con vitale fermezza, e inventando così “la costruzione
di una speranza / che non ci ha abitati né scelti”.
Il poeta intona ancora una volta, come spesso accade,
il personale dolore ma lo fa con gli strumenti saldi della parola.
«Consegno
nella genesi delle onde
il silenzio di entrambi
da cui rinasca fluida
una parola neutra»
Questa speranza, di una “parola neutra” anima tutto
il libro e lo rende efficace e incisivo, originale e classico insieme. Come
osserva Giampiero Neri, “non si pensi… a una poesia decadente, avvitata su
stessa, che anzi l’opera è vibrante, il testo poetico improntato a vigore”.
Alla parola vigore aggiungerei la parola rigore, perché in questo
libro domina l’asciuttezza del dolore ricomposto, guardato, osservato, che si
accetta sì ma non si vuole subire completamente. In una poesia dedicata a
Marguerite Duras, Incurabili, Alina scrive, con un timbro da epitaffio
antico: «È la malattia della morte / contratta il giorno della nascita / che
taluni incautamente / combattono fino all’epilogo».
Nella seconda parte del volume, “La tranquillità è
una menzogna” che cita in epigrafe i versi eponimi di Sylvia Plath, il poeta si
toglie le ultime (o penultime) maschere: «Mi scucio le labbra / con un sorriso
stanco / poi slego il presente / per ammirarlo danzare». In questi quattro
versi, che ci parlano di un corpo ormai lasciato andare, oltre i gusci delle
menzogne e le ipocrisie del vivere, mai Alina è stata così precisa: quattro versi che
risuonano con un timbro classico, gnomici e lirici.
Si esce da questa lettura del libro come dopo un
viaggio purificatore, oltre l’amore e la passione vissuti:
«Io non scrivo più
parole d’amore
che silenziose si sgretolano
un giorno all’improvviso.
Preferisco azzardare
gesti ordinari
che incidano il corpo
per tutte le sere a venire».
Così si cerca, nel qui e ora, un motivo intenso, che
incida la stessa carne, per poter esistere. Così scrive nella poesia dedicata
al figlio:
«ora sei
la fine che non ha trovato rifugio
il mio maldestro ritorno
al primo giorno
all’ultimo che verrà»
E, al di là di ulteriori commenti, varrà ricordare
questo Ritratto:
«Ombre a mezzogiorno
spezzate dalla luce
dalla furia del vento
in un gioco di specchi».
Si tratta di parole già udite, familiari al lessico
della poesia, ma che qui suonano nuove e che ci ricordano come, dopo l’oscurità
e la “furia del vento”, è sempre la lingua a dire di sé; “la lingua / antica,
immaginata” – ferma in un felice riflesso di specchi, in un sapiente gioco di
parole.
Libreria Torriani, Canzo
5 novembre 2016
col professor Vincenzo Guarracino
col professor Vincenzo Guarracino
Milano, Palazzo Marino, Donne in Poesia
a cura di MariaPia Quintavalla
novembre 2016
Como, agosto 2016, FIERA DEL LIBRO
Milano, Spazio Alda Merini
21 marzo 2017
OLGIATE COMASCO, 4 LUGLIO 2017
LETTURA PUBBLICA A COMO
organizzata dal critico Vincenzo Guarracino
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