“ Si scrive ciò che si sente e si vive. Si scrive con tutto il proprio essere. E’ la sola maniera di essere onesti, di essere se stessi”.

Ivy Compton-Burnett

IL FRUTTO SILLABATO poesia

IL FRUTTO SILLABATO di  Alina Rizzi
(Dialogolibri, luglio 2004. Pagg. 52 Euro 7)
Con Nota critica di Gabriela Fantato.
Le prime 50 copie contengono un'opera originale di Rosetta Berardi.


ALINA RIZZI, Il frutto sillabato, Ed. Dialogo, 2004
di Serena Scionti
(dal Corriere di Como- 24 novembre 2004)

Frutto invocato, celebrato, sillabato nei fecondi giorni di una donna creativa-creatrice, frutto di viscere e d'intelletto, frutto di passione e di volitiva dedizione.
Se frutto è figlio di fiore, Il frutto sillabato della poetessa Alina Rizzi è il raccolto di una maturazione poetica che ha fiorito il pregevole Rossofuoco.
Una plaquette rossa, per tessere il rosso filo del discorso amoroso attraverso testi che saporano di quotidianità, della ferialità intessuta di trasporti e di litigi, come la cantarono Anne Sexton, Adrienne Rich, Alda Merini, i cui versi sono posti in esergo alle tre sezioni della silloge.
Frutto da addentare, l'amore che unisce la poetessa al “tu” maschile interlocutore dei versi, il gufo rotondo da sgranocchiare nel prologo, per il quale, giunta all'epilogo, non ha più parole: illuso, il gufo torna a masticar convinto / si crede a casa sorride soddisfatto (...) ma non ricorda / che occorre chi le sogni / quelle piume luminose. Lei non sogna più, non più cuori canditi zuccherosi, non più vivande da gustare insieme, non più il farsi eroticamente mensa l'uno per l'altro: nessuna terra di forno fragrante / nessun comune intento. La casa, nido degli amori felici, non ha più nemmeno mazzi di fiori. L'amore ora è un frutto spaccato in due che cerca invano la sua metà, in un perfetto vuoto. Un malore velenoso / dilagante tra le bocche unite sancisce la separazione tra scrivanie confinanti / come isole di fronte. Sguardi piccoli per colazione rivelano che ci si prende a rate temendo un furto / quasi convinti di restituirci un giorno / io persa tu più ricco / nella stanza misuriamo opposizioni /ritrovandoci smussati
Lei quindi si trasforma da donna guerriera in docile grembo sedato: mi vuoi col capo obliquo, dichiara, come allude l'insolita foto di copertina. Si illude, lo illude, ci si illude, allora, di barare fino al prossimo incontro, di riprendersi da quello scoppio in mezzo al cuore / che cauti non convinti / abbiamo detto amore, con la speranza di una nuova fioritura, annunciata nella sezione Controcanto, in cui il “tu” maschile si tramuta, misterioso frutto dalla bocca di latte, e dell'amata ritrova i giorni le canzoni / intatti, tra braci non ancora spente, come pause a raffreddare.
I versi di Alina Rizzi sanno esprimere la vicenda di ogni amore, teso tra imperiosi ritorni quotidiani e passioni pomeridiane / prima di cena un po' immusonite. E' l'atto poetico a fissare sulla pagina con efficaci metafore l'iter di una relazione vissuta nell'alternarsi umorale dei giorni e delle stagioni, una relazione “normale” di noi che abitiamo una terra di passaggio, scevri da passioni angelicate. Il canto è già conforto, il canto poetico dispiega a sé stesso altri scenari, perché nel silenzio che addensa / non resta altro che un canto, nelle mute solinghe / latitudini notturne non resta che il naufragio /arrendersi a quel canto.
Una primavera allora, dopo il muto letargo nivale, è invocata in Appunti e deliri, con la convinzione che tutto torna, che un altro anno sarà più mite e il desiderio metterà germogli come collane.
Un altro anno, e forse un altro inverno con porte sbattute, e poi la primavera con nuove vite, e l'estate accesa di passione... il tempo è la mia croce / un mare / e non saper nuotare.
Presentazione alla LIBRERIA DI VIA VOLTA, Erba.  Con Serena Scionti e l'editore Roberto Crimeni.




IL CORPO AMOROSO SI FA POESIA
dalla nota critica di Gabriela Fantato

L’amore è uno dei grandi temi della poesia, infatti proprio all’origine della lirica occidentale ci sono gli scabri, malinconici e vitali frammenti poetici di Saffo che sanno nominare la gioia dell’amore e la minaccia della sua fine incombente. E ricordiamo le trobairitz che, con i trobadors, in Linguadoca diedero inizio alla lirica in volgare, cantando l’amore in tutte le sue sfumature, anche nella carnalità. Tuttavia, sebbene l’amore sia stato per secoli fondante l’immaginario della nostra cultura letteraria, la poesia del Novecento lo ha messo sovente a latere, relegandolo a metà strada tra il diaristico e l’elegiaco; se si è scritto d’amore lo si è fatto spesso in tono retorico o prendendone le distanze con la parodia. Una parte a sé ha la letteratura erotica, dove l’amore - liberato dalle idealizzazioni - si è mostrato nella corporeità, anche se non sempre i testi sono riusciti a collocarsi su un livello “alto” di scrittura. Alina Rizzi in questa sua nuova silloge “Il frutto sillabato” ci parla proprio d’amore, risentendo sia della tradizione poetica - e lo mostra esplicitamente, citando in esergo delle tre sezioni di cui si compone il libro i versi rispettivamente di Anne Sexton, Adrienne Rich e Alda Merini - sia sapendo ascoltare l’eco di alcune autrici della letteratura erotica, e penso a Colette, Djuna Barnes, Anais Nin, per citare solo le più vicine e note a tutti. Infatti, l’esperienza amorosa viene sempre colta nei testi di Alina come esperienza corporea e non solo emotiva. Non a caso l’autrice ha alle spalle anche alcuni libri in prosa - tra i quali voglio ricordare il fortunato “Amare Leon” (Borelli editore, 1998), romanzo erotico che Tinto Brass ha scelto per il suo prossimo film – sul senso dei quali ha dichiarato l’autrice in un suo articolo che la letteratura erotica “dovrebbe non solo divertirci e intrigarci, ma anche suscitare fantasie e curiosità, suggerirci percorsi alternativi (…)”.
Scrivere d’amore è quindi per Alina una via di scoperta, un modo per conoscere se stessi, per riflettere sulle proprie abitudini e sulle scelte di vita, lo scopo è risvegliare l’attenzione più che solo distrarla. Anche ne “Il frutto sillabato”si interroga l’amore a partire dal desiderio, dando quindi voce al corpo e all’immaginario, il che fa sì che la poetessa costruisca un percorso ricco di sfumature, espresso in un linguaggio che si tiene prossimo all’esperienza, in toni a volte dialogati, talvolta lirici e altrove con modalità del quotidiano. Tuttavia, ciò che costituisce, a mio avviso, il filo conduttore di tutti i testi è il fatto che per la poetessa l’amore non è mai solo gioia, pienezza e felicità, ma ha in sé sempre le tracce di una problematica complessa, in quanto vive entro un’ambivalenza: chiamato verso la felicità è , al contempo, impedito a possederla interamente. E di questa tensione si carica anche il linguaggio: la sintassi è data in schegge, talora vi sono invocazione ma senza risposta, altrove riflessioni inserite entro il flusso emotivo, così che Alina Rizzi ci offre testi mai monocordi e le sue poesie spingono a riflettere.
Ma entriamo all’interno dei versi. L’esperienza amorosa e la potenza emotiva che li connotano sono doppiamente minacciate, come emerge da quasi tutti i testi della raccolta, infatti da un lato c’è il mondo esterno che, con le sue meschinità e la sua routine, sempre rischia di togliere luce e incanto; dall’altro c’è l’ambivalente rapporto tra l’amore vissuto e il linguaggio che lo nomina. Se c’è una parola che ha la capacità di incrementare l’amore, facendo nascere figure dell’immaginario e colorando i sentimenti, sino a diventare poesia, al contempo si pone anche l’esistenza minacciosa di una “parola altra”, razionale che spiegando ridimensiona un’esperienza per sua natura posta oltre i confini della logica. Questa seconda lingua diventa evidente allorché la potenza sovvertitrice dell’amore sta per svanire, allora ecco che le parole sono “ sedate”, scrive l’autrice nel testo “assolo nonostante” della prima sezione, parole direi piegate alla routine e al silenzio.
L’amore avverte sempre la minaccia della sua fine e infatti, scrive dice Alina, è una creatura fragile, animale da fiaba e così ce lo mostra un testo della medesima sezione che fa anche da “prologo”: “ di un gufo rotondo con le piume rosa/nell’inverno innamorato…”. Proprio di questo animale improbabile (l’amore!) la poetessa vuole dirci, lo stesso gufo ricompare nella poesia “epilogo”, ancora nel suo nido, tra i rami “come una macchia rosa colora il giardino/ piroetta s’atteggia a fiore raro e non ricorda/ che occorre chi le sogni/quelle piume luminose”.
Ecco evidente come l’amore viva proprio dell’immaginario, revêrie, “sogno ad occhi aperti” che è fonte di “bene-essere”e della poesia, scrisse Gaston Bachelard nel suo testo “La poetica della revêrie” (Dedalo edizioni, 1972)e Alina pare riconfermare tale intuizione filosofica, infatti in una poesia che preannuncia la fine della relazione d’amore si legge che solo il canto resta a salvare l’amore: “mio superbo tesoro/teniamoci le mani/del silenzio che addensa/non resta altro che il canto” (in “volendo non sanno”).
C’è un altro aspetto che traspare in molti testi, come già si è detto: l’amore è potenza che si mostra in segni corporei e insieme con moti dell’anima, collocandosi all’intreccio tra vita interiore e carnalità, infatti per l’autrice il desiderio è una fame e il corpo un nutrimento: “apparecchiamo al ristorante/ tu nel mio piatto io che ti bevo…” (in “fuori luogo), oppure “hai fatto bene amore/ ecco un cuore candito/dolcissimo da farti sgranocchiare” (in “prologo”). Ma il corpo ha un suo mistero, è anche “carne buia” (in “cuore votivo”) e sfugge la luce del senso e della parola vestendosi delle figure di un immaginario ancestrale, in cui la donna rivive il dominio e la sottomissione, come si legge nello stesso testo: “tutta bocca poco sale guerriera/ai tuoi lombi piegata/mi dibatto per concedermi padrona”, dove è chiaro il gioco ambivalente della donna che alimenta la passione di chiaroscuri.
A volte il corpo, grazie all’amore, si trasforma, diventa un elemento naturale, diventa terra, pianta, prato o acqua: “mi hai scortecciata in fretta/con dubbi passeggeri” (in “prologo”); e ancora “con un calcio alle spalle /il mio prato ben fiorito/dalle siepi regolate e/quattro sedie per inviti..” e appena oltre nello stesso testo: “non temiamo le onde se in mezzo/ alle gambe si infrangono a notte”( “metereologiche”).
Il corpo amoroso diventa allora corpo potenziato e quasi mitico, non più limite, prigione e catena dell’anima, com’è secondo una tradizione filosofica che risale a Platone; eppure, scrive l’autrice, l’incanto vive di attimi, come ogni revêrie e “mi desto al buio tra pareti scoscese/ il mio mare dissolto rattrappito all’orizzonte/non conserva l’odore il chiarore…”(“metereologiche”).
Di nuovo si coglie come basti un nonnulla a infrangere l’incanto: la situazione amorosa è “una terra di passaggio” ( “profughi pomeridiani”) e facilmente si scivola in “letti standard per storie di tutti”, si dice appena oltre nella medesima poesia. Se questi testi connotano la prima sezione, vediamo che nelle due successive la raccolta presenta testi un po’ diversi per tono e stile, quasi che dopo la fine dell’amore il ristabilirsi dell’ordine abbia modificato la parola poetica, che risulta più malinconica e rammemorante, infine quasi slogata. L’anima e il corpo alieni nella prosa dei giorni. Leggiamo la sorta di poemetto che costituisca la seconda sezione dal titolo “Controcanto”, in cui la perdita d’amore pare compensata prima da una figura femminile - il cui nome pare presagio di malessere e dolore: Malena - ma resta la solitudine, insieme alla nuova libertà. Tale condizione è sottolineata dai versi di Adrienne Rich, posti in esergo alla sezione: “la libertà è un continuo, prosastico ricordare quotidiano…”e nelle giornate, scrive Alina, c’è un continuo “rovistare le macerie”, un tentare l’inganno della finzione:“come se passasse il tuo odore/dalle dita le ossa/come se passasse” ( IV testo del poemetto). L’ultima sezione -“D’appunti e deliri”- si staglia sopra il crollo, dopo la separazione anche dalle illusioni, quando quell’inevitabile presagito sin dall’inizio si è attuato. In questi testi conclusivi il rapporto tra l’io e la realtà è di nuovo divaricato, ormai persa la condizione amorosa che rendeva naturale lo stra-ordinario e trasformava la parola in corpo amoroso. E leggiamo infatti: “tutto accade/ fuori/ maremoti si stemperano al tramonto depositando/ detriti sulle sponde abitate/dentro/ enfiate maree da venti lunari vestite” ( “sul filo”) e la vita è serie di eventi “impronunciabili”, cortese abbandono : “-Oh, vai pure- ci mancherebbe/ altro sarebbe ad armi pari” (in “molesta non sa”).
Resta una sola certezza “che tutto torna/ quasi una condanna/che sempre occorre tempo/chiedendo di accettare”( “ oggi ancora”) e Alina chiude la raccolta con il testo “hic et nunc” che nel titolo allude alla tematica del tempo, al desiderio di vivere nell’attimo regalato di passione, ma “il tempo è la mia croce/ un mare/ e non saper nuotare”. L’amore finito riporta ogni umano al suo limite, al suo essere frammento entro il fiume che scorre, che toglie e forse nel tutto ritornare potrà ridare ancora l’amore, un giorno.



INCANTESIMO E INDOVINELLO
La Poesia di Alina Rizzi
(dalla rivista Dialogo, aprile 2005)

Il frutto sillabato, edito da Dialogolibri, è la più recente raccolta poetica di Alina Rizzi.
Alina è nata a Erba e ha già nel suo catalogo personale un numero significativo di exploits letterari; l’apprendistato creativo di Alina è sicuramente inscrivibile all’interno di coordinate di genere che si possono definire di letteratura erotica, laddove con questo termine si vuole identificare quell’importante filone di racconto in prosa o in versi che dai frammenti lirici di Saffo, Alceo, Archiloco, attraverso i secoli arriva fino ai nostri giorni; un genere in cui al centro dell’ispirazione sia posto l’eros nella sua accezoine etimologica e filosofica, l’amore come passione, come carnalità, come fisicità.
Questo aspetto che è forse più accentuato nella prima produzione di Alina, risulta più sfumato, più allusivo nella raccolta edita da Dialogolibri, all’interno della quale è facile ritrovare un filo conduttore comune: il desiderio come motore scatenante dell’esperienza emotiva, l’appagamento come obiettivo irraggiungibile nella sua pienezza, la consapevolezza che la ricerca del possesso totale dell’Altro è destinata a rimanere una pura tensione, sistematicamente frustrata e irrisolta.
In questo senso quindi la poesia di Alina si ricollega direttamente ad alcuni grandi modelli della letteratura passionale otto-novecentesca, da Emily Dickinson, vero e proprio nume tutelare della modernità intesa come rifiuto dell’omologazione a Anais Nin, con la sua trasgressiva parabola esistenziale, fino alle grandi e tragiche rappresentanti della cosiddetta “confessional poetry” americana (Anne Sexton, citata esplicitamente nella raccolta e Sylvia Plath).
Non a caso tutti i nomi citati sono nomi di donne: Alina vuole sottolineare la dimensoine peculiramente femminile della scrittura, la specificità femminile nelle modalità espressive e nella sensibilità con cui si affrontano certe tematiche e difatti a lei si deve l’ideazione di un sito internet (www.segniesensi.it) che oltre a essere naturalmente un veicolo per promuovere le sue pubblicazioni, vuole essere soprattutto uno spazio di confronto e di approfondimento sulla letteratura e sulla scrittura al femminile.
La silloge che presentiamo è strutturata in due parti: nella seconda trovano posto alcuni componimenti sciolti, nella prima si susseguono due piccoli poemetti (Il frutto sillabato e Controcanto), all’interno dei quali le singole poesie sono articolate secondo una numerazione progressiva e nel caso del pirmo poemetto anche titolate, ma significativamente con il titolo posto tra due parentesi, quasi a non disturbare il flusso dell’affabulazione poetica.
C’è infatti in queste poesie un che di intraducibile, di irriducibile alla percezione logico-razionale dei fenomeni; questo traspare chiaramente dalla struttura stessa del componimento: le parole sono organizzate in un continuum poetico che annulla le regole standardizzate del discorso, abolisce la punteggiatura e la sintassi convenzionale, sovverte la metrica, si affida frequentemente all’enjambement, avvicinandosi così a una sorta di stream of consciousness ininterrotto, che scorre sotto il testo e affiora saltuariamente e quasi casualmente per fissarsi sulla pagina in una serie di immagini dall’evidente valore metaforico e ridiscendere nuovamente nel profondo del magma emozionale. E’ quindi una poesia che tende al minimalismo e quasi al solipsismo e che mantiene un rapporto ambivalente con la parola, quasi come se un’emozione nel momento in cui si cristallizza in un’espressione verbale vada automaticamente incontro alla dissoluzione.
E questa ambivalenza, questa compresenza di elementi apparentemente contraddittori è il leit motiv di questa raccolta: il dualismo lacerante tra immaginazione e prassi, tra desiderio e realtà, tra mondo interiore e mondo esterno, tra corpo e sublimazione della corporeità. Forse, sembra dirci Alina, l’unica sintesi possibile di questi opposti inconciliabili sta nella capacità dell’individuo di saper vivere l’incanto dell’istante, nella consapevolezza, però, che questi attimi sono destinati a svanire rapidamente e che, come recita uno dei passaggi più scarni e emblematici
della raccolta, essere nel tempo è come essere nel mare senza saper nuotare.
Alina sarà ospite del Circolo culturale Dialogo per presentare la raccolta presso il Medioevo di Olgiate giovedì 21 aprile.
Antonio Endrizzi





Occasione di passioni

recensione di Marco Ercolani


 
«Ti ho dipinto un inverno/ di pane e comete/ di terre sventate». Così Alina Rizzi presenta al lettore, in questo libro, la sua poesia sensuale, fluente, surreale. «Nessun commento/ oltre la soglia sbarrata dal buio/ nato nel sonno/ e impregnato di giorno». Una poesia «nata nel sonno» e che vuole «impregnarsi di giorno» è una poesia che ha profonde radici nei fenomeni diurni e notturni della vita. «Mi vuoi col capo obliquo/ ristabilito dai giorni muti/ con le mani impazienti battuto/ da un ritmo di occhi chiusi miocardico/ e musicale». Questa poesia ha il suo palpito interno in una sorta di spericolata, rischiosa follia d’amore. «Esiste un nido/ davvero troppo alto da accudire/ dietro scudi di parole ben cucite/ spericolate». La parola è inadeguata a custodire quel nido interno. E’ flusso, emorragia, perdita, e non ce la fa a proteggere nulla. Si disperde, si effonde.
Un lungo e variato canzoniere amoroso è questo libro di poesie dove Alina Rizzi raccoglie quasi il corpus intero della sua produzione, un libro- costellazione di frammenti lirici, un “frutto sillabato” che attraverso “la danza matta” delle parole si inventa una carnale e aguzza presenza, un  azzardo felice, un desiderio mai saziato di ulteriorità.
«Il poeta si augura di/ svolgere il profilo delle forme/ di/ abitare la pelle più sottile/ e ritrovare i giorni le canzoni/ intatti tra le tue mani». Abitare la pelle, svolgere le forme, è l’ambizione, complessa e conflittuale, di Alina, che spesso intona canzoni di un amore doloroso, scucito, lacerante. «Impunemente/ a rovistare le macerie/ negando il fuoco/ meticolosamente ripristinare/ sopra le braci non ancora spente/ come passasse il tuo dolore/ dalle dita le ossa/ come passasse». Gli esiti più felici di questa poesia sono le figure sospese di questa straziata scena amorosa. La poesia abita “gli interstizi del pensiero”, affonda in un canto che parla di “appunti e deliri”. Affiora spesso, nel poeta, un’enfasi del dire, si parla di “maremoti”, di “detriti sulle sponde abitate”, di paesaggi apocalittici, di un fuoco che distrugge e non salva. «Ardere spargendo/ le ceneri dei giorni/ non ancora avuti».

Poesia amniotica, palpitante, effusiva, quella di Alina Rizzi, con aloni simbolici e surreali, che si svolge tutta a «latitudini notturne», che dissolve il paesaggio esterno e interno in quello che spesso diventa un rogo, un ardere fisico/metafisico.
Ma talvolta il poeta si sorprende a meditare riflessioni più astratte. «Obliqua la lingua batte/ dove le regole allo specchio/ dietro lo specchio incrina/ le forme dall’acqua/ levigate». Oppure lavora su certe immagini più lente, più malinconiche, intrise di un surrealismo pacato che ricorda André Delvaux: «l’acqua ad infiltrarsi/ lentamente nelle crepe/ statue/ coi piedi immersi/ attenderemo altrove». Poi, però, ritorna la voce di una danza erotica, disperata, palpitante, guerriera: «sognare a giorni alterni/ le mani attorno ai polsi/ la forza di un comando/ circoscritto all’abbandono»; e il leggero, affilato, scintillante, linguisticamente giocoso canto d’amore: «chiamami/ chiedimi/ chiudendo fuori in/ chiostro nostro/ chiarendo/ chiaroveggendo/ chimere o/ chiavistelli/ chinato su di me/ chiosata non più/ chiusa da/ chiunque/ chiesta in/ chiodata/ chioccolante e/ chiaroscura/ dunque/ chiacchierata eppur più/ chiara in te/ chiarita»
Poi, ancora una volta, ritorna l’ombra scura, densa: «Specchio di creta/ l’assenza modella:/ lacrime e fame/ lo scavo accurato/ del tuo volto distratto».
Poesia femminile, quella di Alina Rizzi, ricca di umori, di sangue, di liquidi densi, di grassi orologi, surreale e carnale. Ma anche esposta all’incontro, all’occasione, al dettaglio intimo. Ora brevissima, ora poematica. Legata alla situazione vissuta - dentro e fuori - piuttosto che alla risonanza delle parole. Poesia di violenza surreale, che spesso fatica a trattenere questo empito a esplodere, a bruciare, a dissolversi.
Ma il poeta tenta anche cuciture, guarigioni. Confessa, di sé: «Non ho mai avuto tre anni e voglia di ridere». La sua voce è «Dentro un canto, quel canto più audace/ dei resti abbaglianti in cui affondo/ polverosi i passi/ già persi del ritorno». Alina Rizzi è come stordita dalla poesia, si effonde, si fa catturare, talvolta eccede nel confessare emozioni e palpiti. Ma questa voluta disattenzione fa parte di una poetica fluida, emorragica, che travolge e dissemina, non curandosi troppo di limiti e codici definiti.



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