(“La foresta nella notte”, Adelphi, e “La passione”, Adelphi, di Djuna Barnes.)
Tempo fa, per caso,
come quasi sempre mi accade coi libri
delle donne, scoprii i racconti di Djuna
Barnes intitolati “La passione”.
Ricordo che mi colpì molto
la musicalità delle parole,
il ritmo dei testi, più che
le storie narrate. Era una
scrittura che si avvicinava
molto alla poesia e che appariva di
impianto prevalentemente autobiografico.
C’era troppa passione, troppo
coinvolgimento perché non immaginassi
la scrittrice intenta a ripercorrere
i propri vissuti, e quindi le
proprie esperienze reali o
oniriche che fossero.
Comperai entusiasta il suo più
celebre romanzo, “La foresta nella
notte”, ma non lo aprii. Lo ritrovo
ora, contagiata dall’entusiasmo
dell’amica Francesca Mazzuccato,
che ama molto quest’autrice americana.
In questo libro, come nei racconti, ritorna il linguaggio poetico, denso di metafore. La scrittura si fa ricca, opulenta, quasi incontenibile. L’autrice racconta accadimenti confusi e notturni, descrive personaggi folli e grotteschi, dipinge emozioni e stati d’animo travolgenti. Non c’è un vero inizio e una vera fine. I capitoli sono singoli racconti accomunati da personaggi che si perdono e si ritrovano più avanti o nel finale. E’ un libro scritto negli anni ’30, da una donna, e racconta della notte e dei suoi misteri, soprattutto nel capitolo intitolato “ Guardiano, com’è la notte?”, senza mitigare le emozioni più prepotenti o…sconvenienti. Le parole sono vere, brutali. La Barnes scrive “cesso“ e “merda”, come Henry Miller, come Anais Nin. Propone personaggi surreali e inquietanti fino a divenire oscura. Appare a tratti violenta e “maschile”, come celasse in sé un segreto rancore, il desiderio di un riscatto che rende le pagine taglienti e brutali. Eppure, descrivendo se stessa, rappresentata nel romanzo dal personaggio di Mara., parla di una donna appassionata e intensa, ma pronta a darsi e anche a sacrificarsi per amore. Una donna dunque più fragile, almeno apparentemente, di chi scrive. Ma forse è una caratteristica di alcune scrittrici “della passione”, quella di vedersi e raccontarsi fragili, sofferenti, deluse, dimenticando quanta forza occorra, invece, per scrivere di quei sentimenti e di quelle passioni, così misteriose e inquietanti.
In questo libro, come nei racconti, ritorna il linguaggio poetico, denso di metafore. La scrittura si fa ricca, opulenta, quasi incontenibile. L’autrice racconta accadimenti confusi e notturni, descrive personaggi folli e grotteschi, dipinge emozioni e stati d’animo travolgenti. Non c’è un vero inizio e una vera fine. I capitoli sono singoli racconti accomunati da personaggi che si perdono e si ritrovano più avanti o nel finale. E’ un libro scritto negli anni ’30, da una donna, e racconta della notte e dei suoi misteri, soprattutto nel capitolo intitolato “ Guardiano, com’è la notte?”, senza mitigare le emozioni più prepotenti o…sconvenienti. Le parole sono vere, brutali. La Barnes scrive “cesso“ e “merda”, come Henry Miller, come Anais Nin. Propone personaggi surreali e inquietanti fino a divenire oscura. Appare a tratti violenta e “maschile”, come celasse in sé un segreto rancore, il desiderio di un riscatto che rende le pagine taglienti e brutali. Eppure, descrivendo se stessa, rappresentata nel romanzo dal personaggio di Mara., parla di una donna appassionata e intensa, ma pronta a darsi e anche a sacrificarsi per amore. Una donna dunque più fragile, almeno apparentemente, di chi scrive. Ma forse è una caratteristica di alcune scrittrici “della passione”, quella di vedersi e raccontarsi fragili, sofferenti, deluse, dimenticando quanta forza occorra, invece, per scrivere di quei sentimenti e di quelle passioni, così misteriose e inquietanti.
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