Della scrittura di Natalia Gizburg mi
restano sensazioni e immagini precise, pulite e luminose. Quasi che
tutti i suoi racconti e i suoi romanzi, le migliaia di parole lette
voracemente, ora in me si coagulassero in pochi quadri: la campagna, la
povertà, i legami famigliari, l'ironia di ragazzine argute e indomite.
Non ricordo grandi amori ma grandi processi di crescita, naturali e
intensissimi, e uno stile che affascina: le parole lente, piane,
misurate. E poi le ripetizioni, i vocaboli quotidiani e inequivocabili, a
volte resi buffi dall'usura. Non c'è niente di altisonante nei suoi
racconti, niente di urlato. La storia si dispiega armoniosa pagina dopo
pagina, tanto che ogni interruzione della lettura risulta molesta.
Scrivere, per la Gizburg, significa scrivere della vita nella sua grandiosa semplicità, e raccontare le storie di tutti, mai straordinarie eppure speciali, totalmente coinvolgenti.
In "LESSICO FAMIGLIARE" è memorabile l'invenzione delle parole all'interno di un nucleo famigliare come tanti, dove il lessico serve a conservare unità e calore anche quando i fatti tendono ad allontanare. Neologismi che creano un'intimità quasi inconsapevole.
La "negrigura" per esempio. Gli insulti colti: "è un sempio". Le tenerezze: "fufiguerri" sono i segreti e "scherzettini" le barzellette. Le scorciatoie: "il trattamento" per indicare una merenda a base di tè e biscotti e il "mezzorado" per lo yogurt rigorosamente fatto in casa.
Tutte le famiglie hanno forse un lessico interno, proprio, che serve a creare unità, a comunicare in un codice che escluda gli estranei. Forse nasce solo dall'abitudine alla vita in comune, forse dal desiderio di "far fronte comune".
Mio padre diceva "salta giù dalla pianta" per ammonirmi ad aprire gli occhi, e mia madre, quando non era in forma: "ho la pecondria". E quante parole troncate, travisate, tra me e i miei fratelli. Una roulotte era per noi "un'aurulot" ; i cartoni animati erano "i cartoni alimati" e la sacca termica per il pic-nic "il contenitore". Conoscere i termini esatti non faceva differenza: ci ridevamo sopra. Chiusi nel bozzolo protettivo del nostro mondo potevamo anche permetterci di usare le parole in malo modo e di inventare strafalcioni: tra noi ci capivamo benissimo e solo questo contava, rassicurandoci.
I saggi contenuti nei volumi "MAI DEVI DOMANDARMI" e "LE PICCOLE VIRTU'" sono autentiche perle rare. Qualche esempio?
In "MAI DEVI DOMANDARMI" il capitolo intitolato "La pigrizia" è di grande sollievo, soprattutto per chi ha deciso di dedicarsi alla scrittura in una società che è interessata unicamente a fare, fare, fare. La Gizburg confessa di non soffrire di grossi sensi di colpa, considerando la pigrizia come una caratteristica dell'essere, non necessariamente un difetto o una manchevolezza, che spesso racchiude il bisogno di tempo per pensare, fantasticare e sognare. Dunque un tempo più che mai attivo e vitale.
Della famosa poetessa Emily Dickinson, nel capitolo "Il paese della Dickinson", che considerava acida, noiosa e melensa, scopre la forza e la determinazione, il coraggio di restare nell'ombra per tutta la vita, così contrastante col bovarismo moderno di gente che crede di aver sempre diritto a qualcosa di meglio o ad un premio per ogni più piccolo sforzo. Di uomini e donne che si sentono segretamente destinati ad altro, al meglio, e per questo si piangono addosso in ogni occasione.
Nel capitolo "Cent'anni di solitudine", dedicato al romanzo di Gabriel Garcia Marquez, scrive: " Si è diffusa l'idea che sia una colpa abbandonarsi a romanzi, che il romanzo è evasione e consolazione, e necessario è non evadere e non consolarsi, ma stare fermamente inchiodati nel mezzo della realtà. Siamo oppressi da un senso di colpa nei confronti della realtà…" E ancora: "… i romanzi veri hanno il prodigio di restituirci l'amore alla vita e la sensazione concreta di quello che dalla vita vogliamo."
Oh sì, i romanzi indispensabili come il pane e l'acqua, apparentemente inutili eppure immortali. Com'è vero!
Ma il volume è anche ricco di consigli pratici per aspiranti scrittori. Per esempio, a proposito della critica letteraria (capitolo "La critica"), consiglia ad ogni scrittore di non dare peso ai giudizi e al successo, perché conta di più credere nella propria opera, amarla, qualunque sorte gli tocchi e lasciarsi consolare dal piacere di averla scritta quella storia. Ha ragione senz'altro, eppure ogni autore sa quanto è dura sentirsi invisibili agli occhi del mondo e non poter condividere con altri la gioia e l'emozione di aver scritto quella storia! E infatti più avanti nel libro, nel capitolo "Gli interlocutori", affronta anche il bisogno dello scrittore di sentirsi ascoltato e capito. Ammette che chi scrive deve avere degli interlocutori (tre o quattro) fidati e fedeli, che lo proteggano dal timore di scrivere cose inutili e quindi di essere inutile, dalla sensazione di farneticare in solitudine. Il pubblico in fondo, dice, non è altro che un'estensione di questa minuscola platea e non deve fornire un giudizio critico, ma conforto e partecipazione. Vanno bene dunque gli amici o i famigliari, purché siano attenti e interessati.
E' curioso questo punto di vista, perché di solito, sono proprio questi giudizi "di parte", così affettuosi, che non aiutano a crescere, a migliorarsi e a capirsi più a fondo. E' l'estraneo, invece, che può indirizzarci verso i nostri punti di forza, occupandosi del testo e non di chi l'ha scritto, cercando di essere oggettivo e non di consolare. Solo dal di fuori, dagli estranei, dal mondo, può infatti venire il vero riconoscimento del lavori di scrittura come bene universale. Poi però mi chiedo: trattandosi di un'attività così personale e intima come la scrittura, si può davvero slegare il prodotto dal suo creatore?
L'ultimo saggio, "Ritratto di scrittore", è dedicato al senso di colpa vissuto da chi scrive, ai momenti bui, di vuoto. Racconta della paura di non aver più nulla da dire e della gioia delle frasi ritrovate. Nelle ultime tre righe del breve testo la Gizburg riesce a sintetizzare tutto il senso di questo duro "mestiere" e dice dello scrittore: "…si è chiesto se scrivere era per lui un dovere o un piacere. Stupido. Non era né l'uno né l'altro. Nei momenti migliori, era per lui come abitare la terra."
Riprende il tema nel pezzo intitolato "Il mio mestiere" raccolto nel volume "LE PICCOLE VIRTU'", descrivendo con estrema semplicità tutto il dolore e la gioia che la scrittura si porta dietro, l'esigenza e la condanna della solitudine. Parla di un "mestiere" che è semplicemente l'accettazione di un dono, che "non è mai una consolazione o uno svago, non è una compagnia." Ciò nonostante "ci aiuta a stare in piedi, a tenere i piedi ben fermi sulla terra, ci aiuta a vincere la follia e il delirio, la disperazione e la febbre".
E scusate se è poco.
Scrivere, per la Gizburg, significa scrivere della vita nella sua grandiosa semplicità, e raccontare le storie di tutti, mai straordinarie eppure speciali, totalmente coinvolgenti.
In "LESSICO FAMIGLIARE" è memorabile l'invenzione delle parole all'interno di un nucleo famigliare come tanti, dove il lessico serve a conservare unità e calore anche quando i fatti tendono ad allontanare. Neologismi che creano un'intimità quasi inconsapevole.
La "negrigura" per esempio. Gli insulti colti: "è un sempio". Le tenerezze: "fufiguerri" sono i segreti e "scherzettini" le barzellette. Le scorciatoie: "il trattamento" per indicare una merenda a base di tè e biscotti e il "mezzorado" per lo yogurt rigorosamente fatto in casa.
Tutte le famiglie hanno forse un lessico interno, proprio, che serve a creare unità, a comunicare in un codice che escluda gli estranei. Forse nasce solo dall'abitudine alla vita in comune, forse dal desiderio di "far fronte comune".
Mio padre diceva "salta giù dalla pianta" per ammonirmi ad aprire gli occhi, e mia madre, quando non era in forma: "ho la pecondria". E quante parole troncate, travisate, tra me e i miei fratelli. Una roulotte era per noi "un'aurulot" ; i cartoni animati erano "i cartoni alimati" e la sacca termica per il pic-nic "il contenitore". Conoscere i termini esatti non faceva differenza: ci ridevamo sopra. Chiusi nel bozzolo protettivo del nostro mondo potevamo anche permetterci di usare le parole in malo modo e di inventare strafalcioni: tra noi ci capivamo benissimo e solo questo contava, rassicurandoci.
I saggi contenuti nei volumi "MAI DEVI DOMANDARMI" e "LE PICCOLE VIRTU'" sono autentiche perle rare. Qualche esempio?
In "MAI DEVI DOMANDARMI" il capitolo intitolato "La pigrizia" è di grande sollievo, soprattutto per chi ha deciso di dedicarsi alla scrittura in una società che è interessata unicamente a fare, fare, fare. La Gizburg confessa di non soffrire di grossi sensi di colpa, considerando la pigrizia come una caratteristica dell'essere, non necessariamente un difetto o una manchevolezza, che spesso racchiude il bisogno di tempo per pensare, fantasticare e sognare. Dunque un tempo più che mai attivo e vitale.
Della famosa poetessa Emily Dickinson, nel capitolo "Il paese della Dickinson", che considerava acida, noiosa e melensa, scopre la forza e la determinazione, il coraggio di restare nell'ombra per tutta la vita, così contrastante col bovarismo moderno di gente che crede di aver sempre diritto a qualcosa di meglio o ad un premio per ogni più piccolo sforzo. Di uomini e donne che si sentono segretamente destinati ad altro, al meglio, e per questo si piangono addosso in ogni occasione.
Nel capitolo "Cent'anni di solitudine", dedicato al romanzo di Gabriel Garcia Marquez, scrive: " Si è diffusa l'idea che sia una colpa abbandonarsi a romanzi, che il romanzo è evasione e consolazione, e necessario è non evadere e non consolarsi, ma stare fermamente inchiodati nel mezzo della realtà. Siamo oppressi da un senso di colpa nei confronti della realtà…" E ancora: "… i romanzi veri hanno il prodigio di restituirci l'amore alla vita e la sensazione concreta di quello che dalla vita vogliamo."
Oh sì, i romanzi indispensabili come il pane e l'acqua, apparentemente inutili eppure immortali. Com'è vero!
Ma il volume è anche ricco di consigli pratici per aspiranti scrittori. Per esempio, a proposito della critica letteraria (capitolo "La critica"), consiglia ad ogni scrittore di non dare peso ai giudizi e al successo, perché conta di più credere nella propria opera, amarla, qualunque sorte gli tocchi e lasciarsi consolare dal piacere di averla scritta quella storia. Ha ragione senz'altro, eppure ogni autore sa quanto è dura sentirsi invisibili agli occhi del mondo e non poter condividere con altri la gioia e l'emozione di aver scritto quella storia! E infatti più avanti nel libro, nel capitolo "Gli interlocutori", affronta anche il bisogno dello scrittore di sentirsi ascoltato e capito. Ammette che chi scrive deve avere degli interlocutori (tre o quattro) fidati e fedeli, che lo proteggano dal timore di scrivere cose inutili e quindi di essere inutile, dalla sensazione di farneticare in solitudine. Il pubblico in fondo, dice, non è altro che un'estensione di questa minuscola platea e non deve fornire un giudizio critico, ma conforto e partecipazione. Vanno bene dunque gli amici o i famigliari, purché siano attenti e interessati.
E' curioso questo punto di vista, perché di solito, sono proprio questi giudizi "di parte", così affettuosi, che non aiutano a crescere, a migliorarsi e a capirsi più a fondo. E' l'estraneo, invece, che può indirizzarci verso i nostri punti di forza, occupandosi del testo e non di chi l'ha scritto, cercando di essere oggettivo e non di consolare. Solo dal di fuori, dagli estranei, dal mondo, può infatti venire il vero riconoscimento del lavori di scrittura come bene universale. Poi però mi chiedo: trattandosi di un'attività così personale e intima come la scrittura, si può davvero slegare il prodotto dal suo creatore?
L'ultimo saggio, "Ritratto di scrittore", è dedicato al senso di colpa vissuto da chi scrive, ai momenti bui, di vuoto. Racconta della paura di non aver più nulla da dire e della gioia delle frasi ritrovate. Nelle ultime tre righe del breve testo la Gizburg riesce a sintetizzare tutto il senso di questo duro "mestiere" e dice dello scrittore: "…si è chiesto se scrivere era per lui un dovere o un piacere. Stupido. Non era né l'uno né l'altro. Nei momenti migliori, era per lui come abitare la terra."
Riprende il tema nel pezzo intitolato "Il mio mestiere" raccolto nel volume "LE PICCOLE VIRTU'", descrivendo con estrema semplicità tutto il dolore e la gioia che la scrittura si porta dietro, l'esigenza e la condanna della solitudine. Parla di un "mestiere" che è semplicemente l'accettazione di un dono, che "non è mai una consolazione o uno svago, non è una compagnia." Ciò nonostante "ci aiuta a stare in piedi, a tenere i piedi ben fermi sulla terra, ci aiuta a vincere la follia e il delirio, la disperazione e la febbre".
E scusate se è poco.
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