BRUCIARE L’AZZARDO
prefazione di Alessandra Paganardi
Più
tardi attraversano il paese/ fiutando aria umida/
in
arrivo un temporale un dubbio/e già scolora/grida selvagge/bimbi che
rincasano. (p. 19)
immergersi
interi ristorati/ dalla presenza abbacinante/ d’un momento/ avuto. (p. 16)
Era un tempo distillato/dall’afasia e dalla penuria/già scandito dal ricordo/ come una condanna come un presagio/ il rito sapiente della perdita (...) (p. 45)
Ho
citato Lucrezio, ma avrei potuto naturalmente ricordare Leopardi. In qualche
punto, anzi, la riflessione di Alina Rizzi si affina e raggiunge esiti che
paiono mutuati dalla grande lezione dei maestri zen: come nei componimenti
finali della prima sezione, brevi e formalmente assai strutturati, pur senza la
pretesa di imitare i veri haiku. O come in questi bellissimi versi dedicati al
tempo:
Alina Rizzi: Gente che se ne va
(Puntoacapo, 2020)
nota di Marco Ercolani per il blog PERIGEION
«Dormire era l’unico modo / per non sanguinare sul foglio intonso. / Nel buio il dolore si placava / dava tregua al respiro sospendeva / il lavorìo incessante della sopravvivenza».
L’ultimo libro di
versi di Alina Rizzi, Gente che se ne va (Puntoacapo, 2020), è il libro più maturo dell’autrice, dopo La
danza matta e Aritmie. I versi che ho appena citato siglano una
sensibilità tagliente al dolore, espressa con uno stile raffinato, di misura
classica. Se Alessandra Paganardi, nella sua introduzione, sottolinea la
liturgia laica dello scorrere delle stagioni e del tempo, io vorrei osservare
come la pagina scritta diventi più persuasiva quando la sofferenza psichica
occupa, con impietosa intensità, la scena, che qui diventa simile a una gabbia:
«Della cella non poteva dire / era incomprensibile / non c’erano chiavi. /
Andava mimetizzando / ormai esperta giorni irreprensibili / senza la grazia dei
sacrifici / la signora Bovary che produceva ancora / trent’anni dopo un grido /
sigillato fra le pagine di sessantacinque / quaderni perfettamente allineati /
in fondo sullo scaffale». La citazione letteraria della Bovary flaubertiana
sfocia nella confessione di un grido esplicito, che non può più essere taciuto.
Alina Rizzi, esperta in narrazioni brevi e artista visiva lei stessa, sa
condensare, nell’ellissi della struttura poetica, una felice spontaneità
descrittiva: «Leggeva precipitando nelle parole senza tollerare / interruzioni
e si guardava leggere / soddisfatta del giorno che andava consumandosi / incontro alla sera. Il tempo cessava / di
essere un cerchio / come non lo fosse mai stato». La storia che sottende il libro
è la crisi esistenziale di una donna colta da prospettive diverse e in scene
diverse, è il diario di una segreta e sincera disperazione (da sine-cera,
senza cera, senza trucchi, senza coperture di comodo). «Ottanta pastiglie
ottanta. / Non sono servite non / ci ha creduto abbastanza»; «Socchiudo gli
occhi per osservare / il vuoto puntellato di tavoli / e sedie consunte
dall’attesa – / la polvere mi parla / al risveglio obbligatorio dopo / i
farmaci e il sonno». Alina racconta come, contro la potenza del dolore, i libri
restino prodigiosi argini di resistenza, cura non definitiva ma sicuro balsamo
contro l’angoscia più evidente: «Incornicio libri perché non tutto / vada
disperso e mi ricordi cosa / è stato di me raccontando / del tempo rappreso in
rari / densi anfratti in nere immagini. Osserva Alessandra Paganardi: «I versi
di Alina Rizzi non offrono facili soluzioni o indicazioni terapeutiche. Alcune
parti di noi vanno irreparabilmente perdute e non torneranno mai più. La
scrittura non è certo una mappa per ritrovarle. Forse può diventare una specie
di bussola per orientarsi a vista nel naufragio. Non trattenendo nulla, né
sperando di farlo: semplicemente imparando, in alto mare e senza neppure il
conforto di una spettrale casa di doganieri, a riconoscere persino al buio il
volto di chi va, di chi resta». L’autrice, come attraverso le pagine di un
diario interiore, guarda il suo dolore – a cui non è necessario dare un nome
preciso – senza ritrarre lo sguardo, con sconsolata e spesso sarcastica
amarezza. E se “A volte scrivere / è una maledizione” è proprio l’atto di
scrivere (o solo di leggere libri) a mitigare le delusioni, a raccogliere la
sfida del vivere, a dare un senso anche provvisorio alle pene sofferte: «...I
libri / più del pane quotidiano / desiderava e non venivano / incistati tra la
carne e i nervi». Un’osservazione, obliqua ma utile: il tono del libro è
musicalmente una mezza voce, un parlato mai troppo lirico, una
prosa intonata che non corteggia una lingua sperimentale e si sottrae a
strategie linguistiche sofisticate o versificazioni erudite («Meritare l’oblìo
/ quieto e arreso / senza spigoli acuti / dove lasciarsi accadere»): si limita
a trattare con sprezzatura e fermezza la materia ovvia e brutale della
sofferenza esistenziale, il “lavorìo incessante della sopravvivenza”. Nel suo
trattato di poetica e di retorica, Del sublime (“Perì Ipsous”), Longino
parla della “adeguatezza” del mezzo espressivo come della forma necessaria di
persuasione del discorso. Alina Rizzi, nella sua poesia minima e sgomenta,
brusca e senza appigli, resistente e spezzata («Poi le mani, le lettere
interminabili, i libri migranti») trova questa “adeguatezza” nel tono della sua
voce, nell’esercizio lucido di una scrittura breve.
Fuori di sé
– È fuori di sé –
per
quella parte ribelle
amputata
all’origine
perfettamente
tonda e tesa
che
non lascia supporre
quanto
ho perso di me.
Resurrezione
Nel giorno della resurrezione
il
corpo si prepara attraversando
altro
percorso bianco affanno
senza
la forza di un credo qualunque.
Farmaci
che entrano ed escono
in
depositi rosso sangue ferite ammiccanti
poche
parole raccolte dal lenzuolo
sudario
in cui esercita la speranza
di
volare all’orizzonte
di
questa terra insana e densa
per
cui le sue ali non sono calibrate
e
si imbrattano nell’ansia si dibattono.
Vasi di bambole
Bambole rotte in barattoli di vetro
gabbie
capsule del tempo
teche
per santi.
Bambole
disarticolate
distillate
a futura memoria
monito
del presente.
Bambole
di carne
bianche
e d’oro – preziose –
icone
del tempo nostro
esposte
ad ogni sguardo
portate
ad esempio
impolverate
dal silenzio.
Un giorno d’estate
Tornassi oggi che so tutto il male
futuro
e innominabile – una voragine
ti
osserverei distante e immobile
costruendo
somme di parole
che
rallentino guardinghe – la discesa
d’un
giorno d’estate.
Un'estate a contraddire
XVI
Un
giorno in grande fretta
la
scrivania ha sgomberato
libri
fogli quaderni
per
seppellirli in una scatola
poi
nascosta da un telo.
Tabula
rasa. Sarebbe stato spazio
per
tutto il nuovo possibile
qualche
vaga speranza
non
un vuoto rotondo
in
cui annaspare per giorni
senza
risarcimenti. Credeva.
Ha
riaperto la scatola tolto i quaderni
e
sono tornati i fantasmi
le
luci taglienti.
GENTE CHE NE VA
nota di lettura di Annitta di Mineo per il blog PUNTO - Almanacco letterario
In “Gente che se va” di Alina Rizzi non c’è origine, non c’è risultato, solo un trascorrere di corpi e di materiali, di eventi e di forze, di espressioni inaspettate in un mondo coeso, non separato, un contesto unico. Versi carnali e sensoriali si mescolano dando inizio ad una percezione che finisce per risucchiarci. L’aptico, in queste poesie, costringe a sentire senza pregiudizi e preconcetti, perché tutti immersi viviamo, scorrendo dentro e corrispondendo.
La forza della parola, il suo mistero, i suoi riflessi sono elementi di una visione poetica colta da angolazioni differenti. Questo è quanto racchiuso in “Gente che se ne va”, attimi di vita quotidiana che si espandono fino a diventare atto di coraggio, di denuncia, di speranza; versi di poesia in cui Alina Rizzi misura le parole, le pesa e ne percepisce la delicatezza.
I componimenti si presentano come una casa senza tetto né pareti, sono all’aperto, sono di tutti e il lettore può addentrarsi in modo profondo o viverli da spettatore con distacco.
Ciascuna poesia ha una collocazione specifica e, quando viene riconosciuta, si fa portavoce di storia di vita, diversa da ognuno di noi ma altrettanto significativa.
La poetica di Alina Rizzi in “Gente che se ne va” risponde alle conseguenze di una società sofferente, sottolineando la responsabilità del nostro operato e di farcene carico senza ignorare la realtà.
Poesia tesa a inserire nel solco della vita il dolore, altro non è che un affondo luminante sulla vita, un’immagine non metaforica che non designa buiore bensì la consapevolezza della caducità umana, delle tragedie della vita, della condizione universale. La parola lirica dell’autrice, carica di significato profondo, diventa un mezzo per cogliere l’essenza delle cose, per approdare a una nuova concezione della vita, di viverla appieno perché la nostra condizione vitale è un lungo viaggio che muta costantemente di momento in momento.
GENTE CHE SE NE VArecensione di Raffale Piazza per il blog Poetry Dreamdi Antonio Spagnuolo
Meditazioni sul senso della vita e dei rapporti umani, sul tempo che scorre, sulle intermittenze del cuore. Gente che se ne va è il titolo della nuova raccolta della poetessa comasca Alina Rizzi appena pubblicato da Puntoacapo, l’editrice diretta dal poeta e saggista Mauro Ferrari a Pasturana (Al). Nella sua prefazione Alessandra Paganardi sottolinea come la poesia di Alina Rizzi “può essere letta come una liturgia laica dell’anima, costantemente filtrata – in una sorta di déja vu sottotono – dalla cifra emotiva forse più marcata della sua scrittura: la nostalgia. Questo libro, tutto permeato di rarefatta ritualità, restituisce un senso particolare allo scorrere delle stagioni e alle ore della giornata – con il loro quotidiano, solenne ritornare”. Ecco alcuni versi: “Bimbi nella sera giocano l’estate / urlando per strada / rincorrono una palla / verso il buio che scende / luci di case /gusci in lontananza. / Più tardi attraversano il paese / fiutando aria umida / in arrivo un temporale un dubbio / e già scolora / grida selvagge / bimbi che rincasano”.
GENTE CHE SE NE VA
di Giuliana Panzeri
Giornale di Erba, 24
luglio 2021
"Bambole
rotte in barattoli di vetro/ gabbie capsule del tempo/ teche per santi./...
Bambole di carne/ bianche e d’oro – preziose – icone del tempo nostro/ esposte
ad ogni sguardo/ portate ad esempio/ impolverate dal silenzio.” Così l’universo femminile viene evocato
in una delle poesie della raccolta Gente che se ne va della scrittrice erbese Alina Rizzi, tenace indagatrice
del vivere al femminile attraverso romanzi, saggi, articoli e un’ininterrotta
consuetudine con la ricerca poetica.
Commenta
l’autrice: “La mia poesia ruota attorno alla fatica di vivere, ai dubbi e al
nonsenso che ogni esistenza deve affrontare. Oggi, adesso, è il tempo
ricorrente dei miei testi. La vita in fondo è fatta di pochi istanti, persi nel
mare magnum di una quotidianità sfiancante. La scrittura mi aiuta a
concentrami, a riflettere, a riordinare i fatti.”
Alina
Rizzi ha scritto dell’esperienza della pandemia nell’antologia appena
pubblicata “Voci dal confinamento “ (Editrice Nulladie) e così la rievoca: “La
pandemia per me, come per moltissimi, è stata traumatica: il faccia a faccia
con l’imprescindibile è stato travolgente. Ho raccontato i giorni pieni di niente,
se non della paura, del dramma collettivo. Il ricordo del confinamento dovrebbe
essere un monito a non sprecare più il tempo che ci è donato, a non darlo per
scontato.”
L’universo
femminile è al centro dell’attività letteraria e giornalistica della scrittrice
erbese. Così descrive la sua visione in proposito: “Nel mondo occidentale, ci
sono leggi e diritti per le donne inimmaginabili meno di 100 anni fa, ma il pensiero patriarcale dell’uomo che vale più
della donna impregna tutte le società dalla notte dei tempi.
Occorrerà
tempo, e l’impegno e la forza di tutte noi, di ogni singola donna. E’ evidente
che la maggior parte degli uomini non vuole cambiare lo status quo, ma senza il
loro contributo, come potremo raggiungere una parità autentica ed effettiva?
Esprimere il proprio dissenso, ognuna a modo suo, mi sembra il minimo che
possiamo fare per noi e per tutte.”
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