“ Si scrive ciò che si sente e si vive. Si scrive con tutto il proprio essere. E’ la sola maniera di essere onesti, di essere se stessi”.

Ivy Compton-Burnett

GENTE CHE SE NE VA, poesia

 





BRUCIARE L’AZZARDO

 Libertà e misura nei versi di Alina Rizzi

prefazione di Alessandra Paganardi

 La poesia di Alina Rizzi può essere letta come una liturgia laica dell’anima, costantemente filtrata - in una sorta di déja vu sottotono - dalla cifra emotiva forse più marcata della sua scrittura : la nostalgia. Questo libro, tutto permeato di rarefatta ritualità, restituisce un senso particolare allo scorrere delle stagioni e alle ore della giornata - con il loro quotidiano, solenne ritornare .

 Bimbi nella sera giocano l’estate/ urlando per strada/ rincorrono una palla/ verso il buio che scende/ luci di case/gusci in lontananza./

Più tardi attraversano il paese/ fiutando aria umida/

in arrivo un temporale un dubbio/e già scolora/grida selvagge/bimbi che rincasano. (p. 19)

 Sono principalmente i passaggi cosmologici a scandire gli eventi umani: la “solita storia”. (direbbe Verga) , che l’autrice nondimeno carica di tinte emotive speciali, rendendola kairòs, montaliana “occasione”, in ultima analisi destino:

 Sabbia svernata/ e un cielo lungimirante/ nell’aria un nastro/ srotolato di luce/

immergersi interi ristorati/ dalla presenza abbacinante/ d’un momento/ avuto. (p. 16)

 Aggettivi calibrati, non esornativi ma tonalizzanti, a far da contrappunto impressionistico a una sensibilità altrimenti assai lucida, tagliente, quasi iperrealista. Anche il participio - come nell’ultimo verso monoverbale, di sapore ermetico - è usato in funzione aggettivale e suona estremamente sobrio, quasi fosse un participio assoluto. In generale in questa autrice il dettato è troppo elegante per cedere a facili tentazioni espressioniste o gridate, persino quando i ricordi urgono e la componente biografica, esistenziale e d’esperienza si fa indifferibile, fino a divenire materia stessa. d’ispirazione. Ciò si verifica, a volte persino con crudezza, qualora il racconto porti con sé il resoconto di una perdita, di un’assenza percepita e bruciante, anche se apparentemente invisibile - ma proprio per questo inconfessabile, almeno secondo il linguaggio comune.

Era un tempo distillato/dall’afasia e dalla penuria/già scandito dal ricordo/ come una condanna come un presagio/ il rito sapiente della perdita (...) (p. 45)

 La poesia di Alina Rizzi è una fenomenologia dell’eterna dialettica di libertà e sicurezza - quel fatale, antinomico binomio su cui si fonda, anche antropologicamente, ll paradosso dell’essere umano. Siamo, non a caso, gli unici viventi in cui ragione e istinto divergono, pur essendo entrambi naturaliter orientati a un solo, imprendibile e imprescindibile fine - la felicità.

 Aveva fatto buoni propositi/sulla luce intensa e lo stormire di fronde/nell’immobile calura che arroventa/ la terra e piega le foglie/ invece/ l’estate arrivò contratta nello sterno/ a compimento di un ciclo asfittico/ e bruciò ogni azzardo/ chiedendo parole. (p. 50)

 Parafrasando l’autrice al contrario, possiamo dire che la scrittura raccoglie “con prudenza / con pazienza” l’eco di brevi estati, già precocemente presaghe di quanto prossimo sia l’autunno. Scrivere è certamente un grande esercizio di pensiero: obbliga a fermarsi, a riflettere oltre i ristretti limiti della propria esperienza personale. Induce a considerare, come già fecero in epoca classica spiriti straordinariamente lucidi come Lucrezio, quanto poco la terra sia fatta per l’uomo: “questa terra insana e densa/ per cui le sue ali non sono calibrate/e si imbrattano nell’ansia si dibattono” (p. 32).

Ho citato Lucrezio, ma avrei potuto naturalmente ricordare Leopardi. In qualche punto, anzi, la riflessione di Alina Rizzi si affina e raggiunge esiti che paiono mutuati dalla grande lezione dei maestri zen: come nei componimenti finali della prima sezione, brevi e formalmente assai strutturati, pur senza la pretesa di imitare i veri haiku. O come in questi bellissimi versi dedicati al tempo:

 Il suo progetto è la declinazione/una parola dopo l’altra/del buio che l’attrae/a giorni alterni.” (p. 35).

 Il silenzio della natura porta con sė quello di un dio indifferente, se non addirittura beffardo, cui la poetessa rende sarcasticamente la pariglia in un paio di amarissime anti-preghiere. Il vuoto di Dio permea un po’ ovunque la poesia di Alina Rizzi, così orientata a cogliere la sacralità dei luoghi, dei momenti e di certi atti - la cura, l’amore, e soprattutto la scrittura. Scrivere è un atto di umana resistenza per non ridursi a “un’effige perfetta/ un sarcofago dorato” (p.42 ). A volte “è una maledizione “ (p. 47), ma farlo significa eseguire un preciso compito, “perché non tutto vada disperso” (p. 44). La “gente che se ne va” (e forse è destinata a tornare) è tipicamente gente di mare, “corsara”, come recita il testo della celebre canzone. C’è molto mare in questi testi: vi si percepisce un’atmosfera mediterranea e appenninica, ligure o forse isolana, ispida come i gioghi di una dorsale invadente, avara, che circoscrive la libertà del pensiero e del volo.

 Forse la poesia può dare una risposta . Ma i versi di Alina Rizzi non offrono facili soluzioni o indicazioni terapeutiche. Alcune parti di noi vanno irreparabilmente perdute e non torneranno mai più. La scrittura non è certo una mappa per ritrovarle. Forse può diventare una specie di bussola per orientarsi a vista nel naufragio. Non trattenendo nulla, né sperando di farlo: semplicemente imparando, in alto mare e senza neppure il conforto di una spettrale casa di doganieri, a riconoscere - persino al buio - il volto di chi va, di chi resta.

 (Alessandra Paganardi)


Alina Rizzi:  Gente che se ne va

 (Puntoacapo, 2020)

 nota di Marco Ercolani per il blog PERIGEION

  «Dormire era l’unico modo / per non sanguinare sul foglio intonso. / Nel buio il dolore si placava / dava tregua al respiro sospendeva / il lavorìo incessante della sopravvivenza».

L’ultimo libro di versi di Alina Rizzi, Gente che se ne va (Puntoacapo, 2020), è  il libro più maturo dell’autrice, dopo La danza matta e Aritmie. I versi che ho appena citato siglano una sensibilità tagliente al dolore, espressa con uno stile raffinato, di misura classica. Se Alessandra Paganardi, nella sua introduzione, sottolinea la liturgia laica dello scorrere delle stagioni e del tempo, io vorrei osservare come la pagina scritta diventi più persuasiva quando la sofferenza psichica occupa, con impietosa intensità, la scena, che qui diventa simile a una gabbia: «Della cella non poteva dire / era incomprensibile / non c’erano chiavi. / Andava mimetizzando / ormai esperta giorni irreprensibili / senza la grazia dei sacrifici / la signora Bovary che produceva ancora / trent’anni dopo un grido / sigillato fra le pagine di sessantacinque / quaderni perfettamente allineati / in fondo sullo scaffale». La citazione letteraria della Bovary flaubertiana sfocia nella confessione di un grido esplicito, che non può più essere taciuto. Alina Rizzi, esperta in narrazioni brevi e artista visiva lei stessa, sa condensare, nell’ellissi della struttura poetica, una felice spontaneità descrittiva: «Leggeva precipitando nelle parole senza tollerare / interruzioni e si guardava leggere / soddisfatta del giorno che andava consumandosi  / incontro alla sera. Il tempo cessava / di essere un cerchio / come non lo fosse mai stato». La storia che sottende il libro è la crisi esistenziale di una donna colta da prospettive diverse e in scene diverse, è il diario di una segreta e sincera disperazione (da sine-cera, senza cera, senza trucchi, senza coperture di comodo). «Ottanta pastiglie ottanta. / Non sono servite non / ci ha creduto abbastanza»; «Socchiudo gli occhi per osservare / il vuoto puntellato di tavoli / e sedie consunte dall’attesa – / la polvere mi parla / al risveglio obbligatorio dopo / i farmaci e il sonno». Alina racconta come, contro la potenza del dolore, i libri restino prodigiosi argini di resistenza, cura non definitiva ma sicuro balsamo contro l’angoscia più evidente: «Incornicio libri perché non tutto / vada disperso e mi ricordi cosa / è stato di me raccontando / del tempo rappreso in rari / densi anfratti in nere immagini. Osserva Alessandra Paganardi: «I versi di Alina Rizzi non offrono facili soluzioni o indicazioni terapeutiche. Alcune parti di noi vanno irreparabilmente perdute e non torneranno mai più. La scrittura non è certo una mappa per ritrovarle. Forse può diventare una specie di bussola per orientarsi a vista nel naufragio. Non trattenendo nulla, né sperando di farlo: semplicemente imparando, in alto mare e senza neppure il conforto di una spettrale casa di doganieri, a riconoscere persino al buio il volto di chi va, di chi resta». L’autrice, come attraverso le pagine di un diario interiore, guarda il suo dolore – a cui non è necessario dare un nome preciso – senza ritrarre lo sguardo, con sconsolata e spesso sarcastica amarezza. E se “A volte scrivere / è una maledizione” è proprio l’atto di scrivere (o solo di leggere libri) a mitigare le delusioni, a raccogliere la sfida del vivere, a dare un senso anche provvisorio alle pene sofferte: «...I libri / più del pane quotidiano / desiderava e non venivano / incistati tra la carne e i nervi». Un’osservazione, obliqua ma utile: il tono del libro è musicalmente una mezza voce, un parlato mai troppo lirico, una prosa intonata che non corteggia una lingua sperimentale e si sottrae a strategie linguistiche sofisticate o versificazioni erudite («Meritare l’oblìo / quieto e arreso / senza spigoli acuti / dove lasciarsi accadere»): si limita a trattare con sprezzatura e fermezza la materia ovvia e brutale della sofferenza esistenziale, il “lavorìo incessante della sopravvivenza”. Nel suo trattato di poetica e di retorica, Del sublime (“Perì Ipsous”), Longino parla della “adeguatezza” del mezzo espressivo come della forma necessaria di persuasione del discorso. Alina Rizzi, nella sua poesia minima e sgomenta, brusca e senza appigli, resistente e spezzata («Poi le mani, le lettere interminabili, i libri migranti») trova questa “adeguatezza” nel tono della sua voce, nell’esercizio lucido di una scrittura breve. 


 Fuori di sé

 – È fuori di sé –

per quella parte ribelle

amputata all’origine

perfettamente tonda e tesa

che non lascia supporre

quanto ho perso di me.

 

Resurrezione

Nel giorno della resurrezione

il corpo si prepara attraversando

altro percorso bianco affanno

senza la forza di un credo qualunque.

Farmaci che entrano ed escono

in depositi rosso sangue ferite ammiccanti

poche parole raccolte dal lenzuolo

sudario in cui esercita la speranza

di volare all’orizzonte

di questa terra insana e densa

per cui le sue ali non sono calibrate

e si imbrattano nell’ansia si dibattono.

 

Vasi di bambole

 Bambole rotte in barattoli di vetro

gabbie capsule del tempo

teche per santi.

Bambole disarticolate

distillate a futura memoria

monito del presente.

Bambole di carne

bianche e d’oro – preziose –

icone del tempo nostro

esposte ad ogni sguardo

portate ad esempio

impolverate dal silenzio.

 

 Un giorno d’estate

Tornassi oggi che so tutto il male

futuro e innominabile – una voragine

ti osserverei distante e immobile

costruendo somme di parole

che rallentino guardinghe – la discesa

d’un giorno d’estate.

 

Un'estate a contraddire

XVI

Un giorno in grande fretta

la scrivania ha sgomberato

libri fogli quaderni

per seppellirli in una scatola

poi nascosta da un telo.

Tabula rasa. Sarebbe stato spazio

per tutto il nuovo possibile

qualche vaga speranza

non un vuoto rotondo

in cui annaspare per giorni

senza risarcimenti. Credeva.

Ha riaperto la scatola tolto i quaderni

e sono tornati i fantasmi

le luci taglienti.


GENTE CHE NE VA

nota di lettura di Annitta di Mineo per il blog PUNTO - Almanacco letterario


In “Gente che se va” di Alina Rizzi non c’è origine, non c’è risultato, solo un trascorrere di corpi e di materiali, di eventi e di forze, di espressioni inaspettate in un mondo coeso, non separato, un contesto unico. Versi carnali e sensoriali si mescolano dando inizio ad una percezione che finisce per risucchiarci. L’aptico, in queste poesie, costringe a sentire senza pregiudizi e preconcetti, perché tutti immersi viviamo, scorrendo dentro e corrispondendo.

La forza della parola, il suo mistero, i suoi riflessi sono elementi di una visione poetica colta da angolazioni differenti. Questo è quanto racchiuso in “Gente che se ne va”, attimi di vita quotidiana che si espandono fino a diventare atto di coraggio, di denuncia, di speranza; versi di poesia in cui Alina Rizzi misura le parole, le pesa e ne percepisce la delicatezza.

I componimenti si presentano come una casa senza tetto né pareti, sono all’aperto, sono di tutti e il lettore può addentrarsi in modo profondo o viverli da spettatore con distacco.

Ciascuna poesia ha una collocazione specifica e, quando viene riconosciuta, si fa portavoce di storia di vita, diversa da ognuno di noi ma altrettanto significativa.

La poetica di Alina Rizzi in “Gente che se ne va” risponde alle conseguenze di una società sofferente, sottolineando la responsabilità del nostro operato e di farcene carico senza ignorare la realtà.

Poesia tesa a inserire nel solco della vita il dolore, altro non è che un affondo luminante sulla vita, un’immagine non metaforica che non designa buiore bensì la consapevolezza della caducità umana, delle tragedie della vita, della condizione universale. La parola lirica dell’autrice, carica di significato profondo, diventa un mezzo per cogliere l’essenza delle cose, per approdare a una nuova concezione della vita, di viverla appieno perché la nostra condizione vitale è un lungo viaggio che muta costantemente di momento in momento.
GENTE CHE SE NE VArecensione di Raffale Piazza per il blog Poetry Dreamdi Antonio Spagnuolo

***Alina Rizzi – Gente che se ne va----Puntoacapo Editrice – Pasturana (AL) – 2020 – pag. 85 - € 12,00
 "Gente che se ne va", la raccolta di poesie di Alina Rizzi che prendiamo in considerazione in questa sede, presenta una prefazione di Alessandra Paganardi centrata e ricca di acribia intitolata "Libertà e misura nei versi di Alina Rizzi". Il testo composito e bene strutturato architettonicamente è scandito nelle seguenti sezioni: Preludio, Ricostruzione e Un’estate a contraddire.
I componimenti, molti dei quali sono brevi, hanno una venatura epigrammatica e assertiva e sono ben risolti nella loro compattezza formale e nell’icasticità che li connota pur nella loro leggerezza.
In Sera, la breve poesia che apre il volume, la poetessa parla della sua vita raggomitolata per parare i colpi del silenzio e in questo testo è implicitamente trattato il tema del detto e non detto e delle parole che scaturiscono dalla virtuale feritoia tra i due termini inverandosi proprio nei versi. Nella prima sezione Preludio si respira nei versi stessi un’atmosfera di sogno ad occhi aperti e tra accensioni e spegnimenti si realizza una forte e magica sospensione che crea visionarietà in sensazioni che sembrano connotate da un forte onirismo purgatoriale.
Altre volte prevale la linearità dell’incanto anche nel relazionarsi dell’io-poetante ad un tu del quale ogni riferimento resta taciuto. Anche il senso della fisicità di un corpo cogitante si rivela con frequenza, corpo che si fa parola e dallo scatto e scarto memoriale scaturisce la chiarezza dei dettati, che sottende una complessità intrinseca giocata sulle tastiere analogiche e forte è la densità semantica, metaforica e sinestesica.
Una sensazione di già vissuto, di ritorno dove si era già stati caratterizza queste poesie fluide nel loro sgorgare come sorgenti di acque limpide sulla pagina decollando negli incipit e planando dolcemente nelle chiuse.
Una vaga armonia sembra sottendere tutto l’ordine del discorso dell’autrice e l’io-poetante è molto autocentrato solipsisticamente su sé stesso e dai sensi acuti e sensitivi scaturiscono le parole dette con urgenza. Nella seconda parte Ricostruzione si assiste a un forte cambiamento di registro espressivo e la materia si fa spesso magmatica e oscura nella trattazione dei massimi sistemi come il tempo che è scritto con la lettera maiuscola iniziale a dimostrazione della sua titanica forza di condizionamento delle vite di chi è sotto specie umana e ne sconta la gravità e il tempo stesso è collegato alla morte che per dirla con Ungaretti si sconta vivendo.
Si tratta di un tempo violato dalla presunta, se tutto in poesia è presunto, volontà di annullarlo come categoria che va stretta per la sua percezione soggettiva e per la sua velocità che aumenta nella mente temporale con il trascorrere appunto della durata della vita.
Nella terza sezione dall’intrigante titolo Un’estate a contraddire ritroviamo poesie senza titolo e numerate che potrebbero essere lette come un poemetto a sé stante connotato da un’aura fortemente surreale ed evocativa.


ESCE IL NUOVO LIBRO DELLA POETESSA ALINA RIZZIdi Lorenzo Morandottidal supplemento comasco del Corriere della Sera
Meditazioni sul senso della vita e dei rapporti umani, sul tempo che scorre, sulle intermittenze del cuore. Gente che se ne va è il titolo della nuova raccolta della poetessa comasca Alina Rizzi appena pubblicato da Puntoacapo, l’editrice diretta dal poeta e saggista Mauro Ferrari a Pasturana (Al). Nella sua prefazione Alessandra Paganardi sottolinea come la poesia di Alina Rizzi “può essere letta come una liturgia laica dell’anima, costantemente filtrata – in una sorta di déja vu sottotono – dalla cifra emotiva forse più marcata della sua scrittura: la nostalgia. Questo libro, tutto permeato di rarefatta ritualità, restituisce un senso particolare allo scorrere delle stagioni e alle ore della giornata – con il loro quotidiano, solenne ritornare”. Ecco alcuni versi: “Bimbi nella sera giocano l’estate / urlando per strada / rincorrono una palla / verso il buio che scende / luci di case /gusci in lontananza. / Più tardi attraversano il paese / fiutando aria umida / in arrivo un temporale un dubbio / e già scolora / grida selvagge / bimbi che rincasano”.

GENTE CHE SE NE VA
di Giuliana Panzeri  
Giornale di Erba, 24 luglio 2021

                                   

"Bambole rotte in barattoli di vetro/ gabbie capsule del tempo/ teche per santi./... Bambole di carne/ bianche e d’oro – preziose – icone del tempo nostro/ esposte ad ogni sguardo/ portate ad esempio/ impolverate dal silenzio.” Così l’universo femminile viene evocato in una delle poesie della raccolta Gente che se ne va della scrittrice erbese Alina Rizzi, tenace indagatrice del vivere al femminile attraverso romanzi, saggi, articoli e un’ininterrotta consuetudine con la ricerca poetica.

Commenta l’autrice: “La mia poesia ruota attorno alla fatica di vivere, ai dubbi e al nonsenso che ogni esistenza deve affrontare. Oggi, adesso, è il tempo ricorrente dei miei testi. La vita in fondo è fatta di pochi istanti, persi nel mare magnum di una quotidianità sfiancante. La scrittura mi aiuta a concentrami, a riflettere, a riordinare i fatti.”

Alina Rizzi ha scritto dell’esperienza della pandemia nell’antologia appena pubblicata “Voci dal confinamento “ (Editrice Nulladie) e così la rievoca: “La pandemia per me, come per moltissimi, è stata traumatica: il faccia a faccia con l’imprescindibile è stato travolgente. Ho raccontato i giorni pieni di niente, se non della paura, del dramma collettivo. Il ricordo del confinamento dovrebbe essere un monito a non sprecare più il tempo che ci è donato, a non darlo per scontato.”

L’universo femminile è al centro dell’attività letteraria e giornalistica della scrittrice erbese. Così descrive la sua visione in proposito: “Nel mondo occidentale, ci sono leggi e diritti per le donne inimmaginabili meno di 100 anni fa, ma il  pensiero patriarcale dell’uomo che vale più della donna impregna tutte le società dalla notte dei tempi.

Occorrerà tempo, e l’impegno e la forza di tutte noi, di ogni singola donna. E’ evidente che la maggior parte degli uomini non vuole cambiare lo status quo, ma senza il loro contributo, come potremo raggiungere una parità autentica ed effettiva? Esprimere il proprio dissenso, ognuna a modo suo, mi sembra il minimo che possiamo fare per noi e per tutte.”


 




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